Nonostante fin dalla metà degli anni Settanta una disciplina tutt’altro che esoterica come la sociologia abbia messo a fuoco l’oscillazione della personalità narcisistica verso il disprezzo di sé piuttosto che verso l’autostima, il senso comune stenta a assimilare il carattere tragico di questa inclinazione del carattere, descritta in un celebre libro di Richard Sennett, Il declino dell’uomo pubblico e pochi anni dopo articolata in un altro saggio esemplare di Christopher Lasch, La cultura del narcisismo. Tra quelle pagine, sulla scia del testo di Freud del 1914, la vera origine del culto di sé veniva fatta coincidere non con la affermazione della propria personalità ma con il suo «collasso».

La più recente e esaustiva rassegna delle origini culturali e delle implicazioni psichiche del narcisismo viene ora da un saggio di Vittorio Lingiardi, Arcipelago N (Einaudi, Le vele, pp. 124, € 12,00) frutto di una imponente schedatura di miti, opere letterarie, cinematografiche e artistiche in genere, tradotto in una scrittura tanto rigorosa quanto seducentemente limpida, virtù paradossalmente rara proprio tra coloro che esercitano una professione, quella dello psicoanalista, fondata – per eccellenza – sulla parola.

Il primo capitolo si muove tra mitologia greca – verso la quale i riferimenti di Arcipelago N sono brevi e precisi – e cinema contemporaneo, tra citazioni da Rilke e rimandi a Bachelard, tra evocazioni di Valéry e rinvii a Lewis Carroll, e dopo ancora tra Jung e Winnicott e decine di altri autori del canone occidentale: orchestrata con misura, questa messe testuale viene a costituire quello che si direbbe a tratti un vero e proprio esempio di metatesto, lineare e godibile, dove trovano posto alcuni interessanti «casi clinici» estrapolati dal cinema – l’esempio del narcisismo patologico dell’Orson Welles di Quarto potere, il Leonardo Di Caprio di The Wolf of Wall Street. L’assunto iniziale e finale di Arcipelago N è coerente con questo sviluppo digressivo: una corretta definizione clinica del narcisismo è – e resta – elusiva, ci dice l’autore.

Tutte le varianti della parabola dell’egocentrismo compresa tra quello che può limitarsi a un aspetto della personalità e il suo approdo al disturbo grave vengono registrate e restituite da Lingiardi, in tensione tra la necessità della diagnosi e l’imperativo a rispettare le manifestazioni irriproducibili di ogni singola soggettività. Affetti dal «fallimento nella regolazione dell’autostima», i narcisisti fanno spesso convivere fragilità e arroganza, grandiosità e sentimenti di indegnità, prepotenza e timorosa vulnerabilità al giudizio altrui.

Risparmiato dal demone della autoreferenzialità che governa la gran parte degli scritti psicoanalitici, questo testo di Vittorio Lingiardi è anche una imperdibile opportunità di chiarirsi le idee circa alcune importanti concettualizzazioni spesso citate e mal comprese del pensiero postfreudiano, dal narcisismo di morte teorizzato da André Green allo «stadio dello specchio» descritto da Lacan. Nel primo caso, «l’incapacità di amare, di valorizzare le proprie risorse, di godere dei propri risultati» viene fatta risalire a una ferita narcisistica inflitta alla psiche del bambino da una madre depressa e perciò impossibilitata a investire sul figlio affetti capaci di affiancare la gioia al dovere della cura; nel secondo caso, l’idea del soggetto lacaniano come strutturalmente diviso viene riportata a quella «lacerazione originale» che si verifica quando il bambino tra i sei e i diciotto mesi, guardando la propria immagine allo specchio e riconoscendovisi, comincia a costruire il nucleo di quell’interfaccia tra il mondo interno e il mondo esterno che si chiama Io. Per Eraclito era la sede del logos profondo, per Gadda «il più lurido di tutti i pronomi».