Dopo dieci anni di Conservatorio, seguiti da un tortuoso percorso lastricato di diplomi accademici, corsi di perfezionamento, spesso all’estero, quasi sempre a salato pagamento, altri tre o quattro anni di attesa prima di ambire a un concorso per un posto in orchestra, l’aspirante musicista che si è nel frattempo arrangiato con contratti temporanei, chiamate stagionali, sostituzioni dell’ultima ora, in un arcipelago di occasioni precarie, se riesce a entrare in orchestra è soltanto all’inizio di un nuovo e per certi versi più laborioso percorso di formazione professionale.

Al musicista in questione, spetta, infatti, l’impegno di amalgamare la propria individualità artistica con la struttura complessiva, e per molti questo processo di metamorfosi in un’identità collettiva è assai più impegnativo e faticoso che imparare a suonare un Capriccio di Paganini, tant’è vero che l’assunzione è sempre condizionata a un periodo di prova. Non è solo questione di disciplina, bensì di apprendere un vasto dispositivo di costumi, abitudini, regole non scritte, norme dettate dall’esperienza e tradizioni che, nel loro insieme, formano la storia e l’identità di ciascun complesso. Per forgiare un’orchestra di qualità ci vogliono decenni di intenso lavoro e una continua e accurata manutenzione.

Per bloccarla non ci vuol niente, ma rimetterla in moto e riportarla al precedente livello di prestazioni è un lavoro lungo e faticoso, che richiede anni, non mesi.
Dallo scorso febbraio, tutte le orchestre italiane sono mute, disgregate, e nessuno sa ancora con certezza quando e come si potrà ricominciare un’attività concertistica e teatrale. Nulla del genere era mai avvenuto, nemmeno nei momenti più bui della guerra, sotto i bombardamenti di Milano dell’agosto 1943 che distrussero la Scala, il Conservatorio, il deposito di strumenti della Ricordi. Anche in mezzo alle devastazioni della guerra, a Milano come a Berlino, Londra, Leningrado, l’attività artistica non è mai cessata del tutto, come invece oggi sta accadendo.

Non sappiamo quali conseguenze produrrà questa prolungata e ignota cesura del rapporto tra artisti e pubblico, la vera incognita che aleggia sul futuro dei teatri. La musica dovrà ricostruire da capo il suo pubblico, anche in senso qualitativo, dal momento che la prolungata assenza di un rapporto fisico con l’ascolto avrà suscitato nuovi bisogni, nuove forme di ascolto, nuove necessità sociali del lavoro artistico. Questi temi, finora, sono stati del tutto assenti dal dibattito pubblico, se non all’interno di un fuggevole e generico riferimento allo ‘spettacolo dal vivo’.

In Italia esistono circa una trentina di orchestre stabili, più una dozzina di cori, per un totale di circa quattromila dipendenti. Accanto a questi, c’è un numero all’incirca doppio di musicisti non stabilizzati, dispersi in un pulviscolo di formazioni professionali di varia natura ed entità. Sono numeri esigui, rispetto alla popolazione lavorativa italiana, per questo non se ne parla. La cruda contabilità dei numeri parla chiaro: il fatturato complessivo del cosiddetto spettacolo dal vivo, un settore che comprende teatro, danza, concerti, spettacoli circensi eccetera, vale circa 3,5 miliardi di euro, ossia lo 0,2% del PIL italiano. Niente rispetto al turismo, e forse persino ai centri estetici.

Marginale economicamente, e per antico retaggio clericale inviso e disprezzato dallo Stato, questo piccolo mondo è stato annichilito dalle misure restrittive, che per la musica restano in vigore fino a data da destinarsi, senza alcun piano seppur generico e provvisorio per una riapertura dei teatri e delle sale da concerto. Il Teatro alla Scala ha annunciato una nuova programmazione per il prossimo autunno, che allo stato dei fatti è più un libro dei sogni che una proposta concreta. Un guazzabuglio di proposte altrettanto palliative è piovuto dalle altre istituzioni, senza un reale confronto con il governo, le cui misure concrete, attualmente, riguardano solo i dipendenti delle Fondazioni, che avranno nove settimane di cassa integrazione, rinnovabili di altre nove.

Il Mibact, inoltre, ha annunciato un fondo di 130 milioni, di cui 20 a favore delle organizzazioni non incluse nel Fus (Fondo unico per lo spettacolo), una somma assolutamente insufficiente e da ripartire tra tutti i soggetti inclusi nelle sovvenzioni statali. Fondazioni come la Scala, l’Arena di Verona, il Teatro La Fenice, l’Opera di Roma, l’Accademia di Santa Cecilia hanno bilanci in cui la voce biglietteria occupa una percentuale rilevante.

Ogni giorno di chiusura che passa le perdite aumentano e si ripercuotono inevitabilmente sul bilancio strutturale e sulla futura attività. Una volta esaurita la cassa integrazione e lo smaltimento forzoso delle ferie, coi teatri ancora chiusi, per quanto tempo le Fondazioni riusciranno a versare lo stipendio ai propri dipendenti, anche qualora il Ministero garantisse la stessa quota di finanziamento dell’anno precedente pur in assenza di attività?

Con tutto il rispetto per le angosce e i problemi di milioni di persone rimaste senza lavoro, nessun danno economico è paragonabile al dramma che incombe sul mondo della musica, che sconta impietosamente la fragilità del sistema a cui il Parlamento ha ostinatamente rifiutato, per anni, di mettere mano con una legge sulla musica.

Ora serve a poco implorare il Governo di riaprire i teatri, senza un quadro preciso della situazione sanitaria e dei rischi relativi, avanzando, come ha fatto l’Agis nei giorni scorsi, progetti inverosimili di ripresa dell’attività. Rischiamo di smarrire un’arte che dal Rinascimento fino ai giorni nostri ha connotato la cultura italiana nel mondo, una perdita forse più grave per il paese della cancellazione di un campionato di calcio.