Su un piccolo belvedere ai margini del villaggio meridionale di Al Odaisseh, al confine con Israele, l’atmosfera è estraniante: nello stesso spazio convivono la tensione palpabile, con lo sguardo nervoso dei soldati est-asiatici dell’Unifil che pattugliano la zona, e la goliardia di alcuni abitanti locali, che arrivano sul posto per farsi i selfie.

La grande scritta colorata «I love Odeisseh», su una impalcatura montata sul belvedere, rende tutto più surreale.

Tutti guardano nella stessa direzione: a dieci metri due membri dell’esercito israeliano, a bordo di un escavatore, rafforzano il muro di otto metri costruito sul confine nel corso degli ultimi anni. «Sono venuto a farmi un selfie col nemico», dice un locale di mezza età, mentre rivolge le spalle all’escavatore e si scatta una foto.

Sabato notte, di fronte al villaggio libanese di Ramyah, a pochi chilometri da Al Odeisseh, gli israeliani hanno scoperto l’esistenza di un altro tunnel sotterraneo, probabilmente costruito da Hezbollah, e hanno completato domenica il rafforzamento del muro divisorio. Non lontano dallo stesso villaggio, il 12 luglio 2006, l’esercito israeliano si scontrò con gli uomini del Partito di Dio, in uno dei primi episodi dell’ultima guerra.

Ed è proprio ad Al Odeissah che l’altro ieri è sorta una disputa tra esercito israeliano e libanese, dopo che il secondo aveva ritrovato sei blocchi di cemento piazzati dai soldati israeliani in un’area contesa, nell’ambito dei lavori per distruggere i tunnel. Da qualche settimana, gli episodi di tensione si susseguono lungo il confine, con le due parti che si accusano reciprocamente.

Gli israeliani hanno costruito un muro, avvertendo di non tollerare altre azioni clandestine di Hezbollah, mentre il governo libanese si rivolge al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, denunciando le violazioni israeliane delle diverse risoluzioni sul confine, oltre che quelle dello stesso spazio aereo libanese, sorvolato abitualmente dai jet di Tel Aviv per condurre raid in Siria.

I villaggi del sud del Libano mostrano ancora i segni dei bombardamenti israeliani: lungo il confine, gli edifici distrutti si alternano a quelli ricostruiti ma spesso abbandonati. A farla da padrone è il silenzio, declinato in modi diversi.

C’è quello spettrale di Maroun al Ras, dove il tempo sembra essersi fermato. Qui, nel luglio 2006, una feroce battaglia tra Israele ed Hezbollah si risolse in una decina di morti per parte, con le truppe israeliane in grado di occupare il villaggio ma non di mantenerne il controllo a lungo. Gli abitanti non parlano, si nascondono nelle case e nei modesti caffè del centro abitato, in un misto di omertà e diffidenza.

C’è poi il silenzio «laborioso» di Bint Jbeil, la «capitale del sud liberato», come la chiamano qui. Un’altra battaglia, ad agosto 2006, si concluse con circa 50 vittime tra i soldati di ambo i lati e altre 70 tra i civili dei villaggi vicini, prima del ritiro degli israeliani. Ai lati delle strade, le foto di decine di martiri di Hezbollah, tra i quali figurano moltissimi adolescenti. Nella piazza principale, il monumento alla «liberazione del sud»: la riproduzione di un kalashnikov in marmo.

Un silenzio simile, ma dai tratti più oscuri, si respira a Marjayoun, villaggio cristiano a otto km dal confine. Qui sono tuttora molto frequenti i manifesti elettorali dei Falangisti, in parte eredi di quell’Esercito cristiano del Sud del Libano (Sla) alleato di Israele nella prima invasione del Libano, che proprio a Marjayoun aveva il suo quartier generale. Una coppia di neo sposi di Bint Jbeil ne è convinta: «Quando ci sarà una guerra, a Marjayoun ci saranno dei traditori», in riferimento alla possibilità che parte della popolazione cristiana torni a schierarsi con Israele.

La disintegrazione dello Sla iniziò però nel 2000 a quattro km da Marjayoun, nella cittadina di el Khiam. A maggio gli uomini di Hezbollah fecero irruzione nella famigerata prigione omonima, dove uomini di Saad Haddad compivano torture sui detenuti. All’operazione – che si concluse con la cattura del centro, oggi trasformato in museo, e quella dei soldati dello Sla – presero parte molti civili. Per questo motivo oggi campeggiano ancora manifesti in cui si glorifca «la resistenza del popolo». Se Bint Jbeil è la capitale, El Khiam è la bandiera.

Il confine libanese termina nei pressi della cittadina di Naqoura: qui l’atmosfera non sembra appartenere pienamente a quella di un avamposto militare in tempi di crescente tensione. Il merito, in parte, va attribuito alla presenza del quartier generale di Unifil – guidato dall’italiano Stefano del Col – con cui i locali hanno un rapporto familiare.

È proprio il portavoce di Unifil, Andrea Tenenti, a mettere in prospettiva la situazione esplosiva di questi giorni: «Continuiamo a mantenere un dialogo con entrambe le parti per il mantenimento della stabilità, per evitare incomprensioni e diminuire le tensioni. Al momento, possiamo dire che la situazione è calma». Per quanto?