In Inghilterra il 1964 sarà ricordato dai residenti di alcune aree costiere. L’imperturbabile ordine sociale di pensionati e imprenditori turistici intenti a trascorrere le loro vacanze o a rincorrere gli affari nel sud del paese fu minacciato da un campale conflitto – simbolico più che reale –, riconducibile all’eterogeneità dei gruppi in cui si divideva la gioventù inglese.

AD AGITARE LA VITA monocorde degli abitanti di paesini di provincia come Brighton, Broadstairs, Clacton, Hasting e Margaret furono i famosi scontri tra Mod e Rocker. Eventi che ciclicamente il Paese rievoca, anche a distanza di molti anni, quando c’è da condannare i giovani e dislocare l’ansia sociale su questioni secondarie, imponendo alla società una riflessione sulle politiche di tolleranza e sulla protezione dei confini morali e normativi.

In queste «battaglie» stilistiche piuttosto che fisiche, i Mod opponevano alla durezza e al chiodo dei Rocker una contro-immagine raffinata ed elitaria, reificata nell’iconografia del giovane modernista. Mentre ai Rocker si imputava una indisponibilità al cambiamento e una conservazione ritualistica delle tradizioni e dello sciovinismo operaio, i Mod tendevano all’enfatizzazione di un’economia di spesa e una completa rottura dell’universo simbolico dei loro padri, percepito con lontano disincanto.

STILISTICAMENTE cresciuti coagulandosi attorno al sound caraibico del rhythm and blues e del modern jazz, i Mod ridefinirono l’idealtipo subculturale che dominava i canoni dell’immaginario popolare di quel periodo, del giovane di periferia dall’accentuato maschilismo, sessista e xenofobo, demone evocato dai coevi Rocker.

Occasione per scrivere dei Mod e dei Rocker è la prima edizione italiana di un fondamentale classico delle subculture giovanili, il libro di Stanley Cohen Demoni popolari e panico morale (a cura di Nello Barile, Mimesis, pp. 272, euro 22). Entrando nello specifico dei paradigmi sottoculturali che Stanley Cohen passa in rassegna nel volume pubblicato la prima volta nel 1972 – con il titolo originale Folks Devil and Moral Panic –, possiamo inquadrare storicamente un conflitto legato alle forme espressivo-emblematiche, con i Teddy Boys che fanno da spartiacque già dai primi anni Cinquanta (anche dello stesso autore, P. Rock e S. Cohen The Teddy Boys, McMillan, Londra, 1970) e a seguire Rocker, Mod e Skin con tutte le variazioni sul tema.

GLI SVARIATI GRUPPI subculturali che per oltre vent’anni hanno monopolizzato le zone di King’s Road, Piccadilly e Soho sono stati il sottoprodotto della modernità capitalista, di nuove forme di produzione e consumo, dell’elezione del tempo libero come ambito di risarcimento, ma anche frutto di un processo di autonomia giovanile fatto di salari ed emancipazione. Gli anni Cinquanta e i Sessanta furono gli anni dell’opulenza, a cui tuttavia faceva eco la mancanza di aspettative per interi settori di popolazione, sprovvisti di risorse culturali ed economiche adeguate a realizzare il «sogno americano». A causa di un’ineguale distribuzione delle opportunità e incapacità della struttura sociale di realizzare le ambizioni dei Kids degli slums, essi contravvenivano alle prescrizioni futuristiche e illusorie propagandate dalla società dell’affluenza.

Abbigliamento, musica e rituali divennero i soli strumenti che consentivano ai giovani della working class una reazione immaginaria ai vincoli imposti da una condizione socioeconomica restrittiva. Erano i mezzi attraverso i quali sperare a un’auto-liberazione che rifletteva uno stile di vita che sovvertiva, come ancora ci insegnano Phil Cohen e Dick Hebdige, l’equazione reddito-consumo-attività ricreative. Per queste ragioni, il luogo del conflitto per le subculture operaie è da sempre stato la decontestualizzazione degli oggetti, la risignificazione feticistica della merce, la smitizzazione della centralità dell’operaio-massa quale agente del cambiamento.

ATTRAVERSO L’OPERA di Stanley Cohen l’epopea di queste sottoculture, la reazione delle autorità e dei media alle peculiarità e idiosincrasie dei giovani più rappresentativi di quel periodo arrivano oggi al pubblico italiano, narrate senza retoriche né particolari istituzionalismi. L’esplosione di desideri ascrivibile a una generazione di proletari aveva creato una ratio collettiva dai molteplici flussi comunicativi che sfuggivano ai tradizionali strumenti di classificazione. Le subculture e le loro rappresentazioni erano per la società di quegli anni il «sintomo» di un profondo «problema sociale», quello giovanile.

Prontamente, le pratiche imperniate sullo stravolgimento dello stile si scontravano con cornici concettuali architettate ad hoc da chi aveva il potere di imporle: i «guardiani» dei valori tradizionali e dello status quo. Le Agenzie del Controllo disinteressate a produrre analisi oggettive molecolarizzavano il «panico morale» e costruivano etichette che limitavano gli spazi di comprensione. Si attivavano istantanei processi di stereotipizzazione e deviantizzazione dei fenomeni culturali, proprio com’è stato fatto con i Mod e i Rocker.

Ancora oggi, a più di cinquant’anni dalla comparsa delle subculture spettacolari, l’interpretazione di questi fenomeni giovanili necessita di un’operazione che includa uno scarto di senso tra la rappresentazione mediatica e la realtà.