In Tuttofumo (Baldini + Castoldi, pp. 348, euro 18), il nuovo romanzo di Eugenio Raspi, la fine del mondo industriale, conclamata letterariamente con La dismissione di Ermanno Rea, prima ancora dal capolavoro di Paolo Volponi, Le mosche del capitale, è ormai lontanissimo, delle macerie del Novecento resta solo una nera ciminiera, come una citazione del passato, dove «negli anni del boom economico, nella fabbrica ci ha lavorato mezzo paese». Ma non è questo, o almeno non solo questo che muove la storia complessa che il narratore vuole raccontare, bensì il destino dei luoghi e delle nuove generazioni all’epoca della fine del lavoro, dentro i feroci processi di deindustrializzazione e globalizzazione, in una provincia italiana, qui siamo tra Narni e Terni, polo industriale dell’acciaio, lontanissima dai centri, che ha smarrito la propria identità anche – ma non solo – a causa delle dismissioni.

RASPI RIESCE con bravura a tenere insieme il rancore e la disillusa sconfitta dell’ultimo ceto operaio, ormai costretto a spettacolarizzarsi per esistere e avere uno spazio mediatico, senza più classe e senza partito, colto nella solitudine sociale della perdita; l’incerto destino dei figli, sospesi tra l’idea della fuga e la difficoltà di trovare un proprio posto e un senso nel luogo dove sono nati, comunque tarmati dalla precarietà e, infine, la piccola città, uno dei tanti microcosmi italiani, costretta a reinventarsi («il parco giochi al posto dello stabilimento»), cercando disperatamente di creare dal nulla e illusoriamente un turismo che non c’è e forse non ci sarà mai per davvero. Come i progetti innovativi di un noto professionista legato alla politica locale, «Chiacchiere e basta» dice il padre in mobilità, il tecnico Guido Vardi, «Chi cazzo viene a costruire Disneyland a Narni? Se ne accorgeranno presto. Sto architetto è tuttofumo». Si aggiunge a tutto questo l’incapacità di una classe politica, nell’Italia centrale storicamente di sinistra, inadeguata nel governare i cambiamenti, e una destra aggressiva che promette soluzioni illusorie e miracolose. È lo specchio dell’Italia che stiamo vivendo, tra macerie industriali e società dello spettacolo, e in mezzo un vuoto angosciante e pericoloso.

BASTEREBBE per rendere questo romanzo un romanzo necessario che trasforma in letteratura una crisi economica e morale che ha avvolto dal nord al sud il nostro paese, per far sentire al lettore l’urgenza di una narrazione tutta concentrata sui fatti, e i movimenti sociali e interiori dei personaggi, resi con stile realistico e con una scrittura fisica, corporale. Il personaggio che esprime più di altri un’idea di sospeso disorientamento, è Luca, l’adolescente studente dell’alberghiero che ama il parkour, figura centrale nel libro, la cui vicenda è una storia nella storia, un piccolo romanzo di formazione, quello di un ragazzo cresciuto in una famiglia operaia, con accanto gli adulti che vivono in apnea nella cupa speranza della riapertura dello stabilimento, il quale cerca a dispetto di tutti e in completa solitudine un proprio posto nel mondo.

A differenza della sorella Elena, che si occupa di computer grafica e ha fame di futuro, Luca è più realista del re, «ha fretta di crescere per essere indipendente e non pesare sui genitori», studia e lavora gratis come barista, incuba una rabbia che non esplode, e un senso di responsabilità che trova il suo culmine quando deve soccorrere il padre salito per protesta in cima alla piattaforma della fabbrica.

DOPO IL SORPRENDENTE La fabbrica del panico (Feltrinelli) di Stefano Valenti, Figlia di una vestaglia blu di Simona Baldanzi, recentemente riedito meritoriamente da Alegre, 108 metri (Laterza) di Alberto Prunetti, la potente voce poetica di Luigi Di Ruscio, scrittore emigrato dalle Marche a Oslo e simbolo dell’emigrazione operaia, di cui Marcos Y Marcos ha di recente stampato le Poesie scelte a cura di Massimo Gezzi, la letteratura working class aggiunge alla sua ricca biblioteca un altro titolo significativo, che sposta sostanzialmente anche il punto di vista, e ingloba nella stessa narrazione la precarietà del mondo giovanile con le vite provvisorie della fine del lavoro industriale, dentro un inedito conflitto generazionale. In Tuttofumo, infatti, romanzo della crisi, i personaggi vivono in attesa di un futuro incerto e angosciosamente invisibile, dove «si fronteggiano antico e moderno», e la forza antica del passato, la sua austera bellezza, quella che era la profondità del mondo, sembra non riuscire a salvarli da un eterno presente profondamente minaccioso e liquido, colti mentre stanno aspettando Godot.