Harold Pinter è morto dieci anni fa, e non tutti ricordano oggi che, oltre ad aver influenzato ogni drammaturgia successiva, poiché dopo di lui la scrittura per la scena non ha più potuto essere la stessa, l’autore inglese è stato anche un grandissimo sceneggiatore per il cinema. Prima per Joseph Losey in una famosa trilogia british (Il servo, L’incidente, Messaggero d’amore), e poi per Hollywood, per grandi registi (da Elia Kazan a Karel Reisz) e per i loro film campioni d’incasso.

Ora che proprio in occasione del decennale della morte, l’Accademia d’arte drammatica prepara per Spoleto un programma «Tutto Pinter», quattro suoi titoli (di teatro e di cinema) vanno debuttando a Roma con registi che guidano l’interpretazione degli allievi dell’Accademia (dove già si era visto qualche mese fa un molto interessante Party Time firmato da Valentino Villa, esattamente bilanciato tra teatro e cinema).

Primo titolo a debuttare, Proust, Alla ricerca del tempo perduto. Sempre al Teatro dei Dioscuri, da domani a martedì, seguiranno due titoli squisitamente teatrali (La collezione e Paesaggio), entrambi realizzati da Massimiliano Farau; e infine ancora una sceneggiatura, La donna del tenente francese, con la regia di Giacomo Bisordi. Per il cinema Pinter ha sempre voluto lavorare su opere scritte da altri (da Ishiguro Kazuo a Margaret Atwood), quasi mai su propri testi. In questo senso l’opera di Marcel Proust, proprio perché immane, doveva averlo stimolato non poco. Anche perché, a vederla oggi in scena, emana vaghi sapori e qualche compatibilità con la scrittura cinematografica pinteriana, come riesce bene a far emergere la regia di Baracco.

In quel comporsi e scomporsi degli amati/odiati salotti di primo novecento, Marcel assume ora la fisicità tangibile del corpo di un attore, così come tutti gli altri, da Swann e Albertine a Madame Verdurin, fino all’incontrollabile Charlus (ma l’attore è particolarmente simpatico). Così come le tenutarie dei salotti di diverso rango, i giovani attori esprimono bene la loro professione entomologica, perché come insetti impazziti sprizzano punture e debolezze, ricordi e visioni di un tempo lontano, che pure mantiene imperiture le sue ferite. Il loro muoversi vitale è quasi mantenuto in vitro «sotto osservazione», grazie alla gabbia di linee di luce che come grate o cornici li inquadrano e li imprigionano, dando al racconto di Proust una inedita scansione da pop art americana di fine novecento. Le scene sono di Luca Brinchi e Daniele Spanò, mentre di Giacomo Vezzani e Riccardo Vanja Sturno è il bel flusso musicale che accompagna tutta questa «ricerca».

Un’ultima osservazione merita forse questo testo pinteriano, pubblicato in Italia da Einaudi. Era stato preparato per Losey, che preferì però tornare in America dove formalmente si era chiusa la stagione del maccartismo. Tra gli interessati a portare sullo schermo la Recherche c’era Visconti, che fu però dissuaso dai suoi abituali collaboratori che ci stavano già lavorando. A questo «sgarbo» fu attribuita allora la clamorosa contestazione di Pinter al regista italiano, che aveva messo in scena Old Times (divenuto Tanto tempo fa invece del Vecchi tempi da Einaudi), nella traduzione non autorizzata del grande Gerardo Guerrieri. A quel risentimento qualcuno fa risalire i fischi allo spettacolo all’Argentina, l’infuocata conferenza stampa al Parco dei Principi, e il brusco ritiro dei diritti di rappresentazione. Oggi questo Proust opera di giovani attori, protagonisti di palcoscenici futuri, assume anche il sapore di una vitale riparazione all’incidente di Tanto tempo fa.