Nello studiolo chiamato Syracusae, posto al primo piano della parte privata del palazzo che fu di Augusto e dove il princeps si isolava come se si trovasse, appunto, a Siracusa – la città contenuta in un’isola – Giulia Agrippina Augusta, nel giorno del suo quarantesimo natale, decide di scrivere le sue memorie, redatte in due esemplari: uno di suo proprio pugno e l’altro, in bella copia, per mano della liberta Caenis.
Con questo artificio, Andrea Carandini dà vita all’autobiografia di una delle figure più enigmatiche della storia di Roma. Io, Agrippina. Sorella, moglie, madre d’imperatori (Laterza, pp. 312, euro 20) è un esperimento storico-letterario germogliato dalla folgorazione dell’autore per la sontuosa statua in basanite di Agrippina incoronata (e per la sua testa originale conservata alla Ny Carlsberg Glyptotek di Copenaghen) che si trova al museo della Centrale Montemartini a Roma: «La figura e il volto mi hanno attratto a tal punto – confessa Carandini nella nota finale del volume – che mi è venuto il desiderio d’impossessarmi ancora una volta degli anni e delle vite dei Cesari».

TUTTAVIA, una conoscenza approfondita dei testi di Tacito, Cassio Dione e Svetonio non sarebbe bastata a costruire un racconto organico del periodo intercorso tra Augusto e Nerone. Serviva un personaggio, anzi una personaggia avvincente, che focalizzasse gli eventi nella sua psicologia. Così ecco che Agrippina, pronipote di Augusto, sorella di Caligola, moglie di suo zio Claudio e madre di Nerone, una donna «moderna» che alle qualità femminili univa qualità maschili, si presta alla perfezione al ruolo di voce narrante.
Il punto di vista unico ambito da Carandini è quello che egli ha potuto dedurre rielaborando le fonti e considerando i perduti – ma citati da Plinio il Vecchio e Tacito come sorgente di informazioni – Commentarii di Agrippina. Il modello letterario a cui l’autore ha voluto fare da pendant, invece, è I, Claudius di Robert Graves (1934) con la cui figlia ha la fortuna di intrattenersi durante i soggiorni estivi a Deiá, il villaggio di Mallorca dove il poeta e romanziere britannico ha vissuto ed è stato sepolto. Ma il pozzo a cui Carandini ha potuto attingere come a una festosa cornucopia è costituito dai trent’anni di scavi e ricerche condotte in prima persona sul Palatino, perché se lo storico è maestro del tempo, l’archeologo è un alchimista dello spazio e può trasformare le pietre in visioni architettoniche.

AVANGUARDISTA del metodo stratigrafico in Italia e capostipite della scuola di Topografia che sovrintende la pubblicazione di The Atlas of Ancient Rome presso la Princeton University Press, l’autore riesce a tracciare un affresco grandioso, sostenuto da una scrittura rétro ma mai oscura. Come in una pittura elegiaca dei fratelli Carracci, sfilano tra le pagine del libro imperatori crudeli, pazzi e megalomani, prefetti senza scrupoli e liberti scaltri.
Ad emergere sono soprattutto le donne: determinate, vendicative o licenziosamente ribelli. Tutti i personaggi si muovono (e muoiono) tra le stanze dei palazzi e delle ville d’otium – descritte con precisione e visualizzabili nelle illustrazioni a cura di Maria Cristina Capanna e Francesco De Stefano – mentre nel foro si consumano congiure e matrimoni, trionfi e funerali. Il potere immaginifico che l’autore riesce a suscitare è sorprendente, a dimostrazione che l’archeologia non è affatto una scienza ausiliaria della storia ma una faccia della stessa medaglia.
Risuscitare i luoghi antichi è, per Carandini, un gesto di pietas, che aiuta a capire meglio paesaggi e monumenti incastonati nell’oggi e contribuisce alla formazione culturale dell’umanità.
Andrea Carandini terrà una lectio magistralis sui temi del suo libro – con introduzione di Alessandro Laterza – al Salone del libro di Torino domani 11 maggio (ore 12, Sala Rossa)