Quadri griglie, con partiture musicali e matematiche di segni, improvvise onde seriali, strisce di pioggia, muri scrostati, tracce illegibili di scrittura. Superfici dove accadono «accidenti» della materia di ogni tipo e dietro di loro, la mano di un autore che tende a scomparire, a eclissare il pensiero in piccole pieghettature, ingombri di colore, gocciolature rapprese, pulviscolo che si alza. Cercare di definire Simon Hantaï, quel particolarissimo ungherese naturalizzato francese, e la sua arte astratta che quasi sempre si dipana in grafie di luce su grandi dimensioni, è un compito improbo.

Ci hanno provato in molti. Mistico, ascetico, religioso, in realtà Hantaï, fino alla sua morte, è stato un pittore di una coerenza stringente, che ha lavorato per via di sottrazione, sospeso fra cielo e terra, soprattutto per cancellare quel senso di trascendenza a cui continuamente veniva ricondotto, vuoi per la sua intensa amicizia con i filosofi e poeti, vuoi per l’ostinata ricerca di un senso dell’arte che vada oltre il suo stesso linguaggio. La rottura semiotica dei suoi quadri con la tecnica del pliage, quel suo caratteristico accartocciamento della tela che destruttura e ricompone interi mondi, avviene sin dai titoli delle sue opere. Dapprima, c’è una reminiscenza – il manto aperto e accogliente della Madonna dell’iconografia rinascimentale nelle Mariales degli anni Sessanta, la costruzione geometrica attraverso il colore di Cézanne, il collage generativo di Matisse, il balbettìo segnico di Mathieu, il dripping di Pollock che però Hantaï va a cogliere nella sua genesi e non nei suoi risultati – poi tutto torna ad essere pura percezione della materia. Toccherà ai filosofi – Deleuze, Nancy fa gli altri – interpretare quei gesti, farne «sistema», leggere il découpage e il ricalco come questioni aperte sull’inconoscibilità del reale.

Questo grande e misterioso esponente dell’astrattismo europeo del dopoguerra, viene celebrato ora presso Villa Medici a Roma, con una retrospettiva a cura di Éric de Chassey – impaginata elegantemente attraverso due sezioni – che allestisce quaranta sue opere, di diversi formati, tutte realizzate tra il 1958 e il 2004 (l’artista morì nel 2008, ma si era già ritirato dalle scene da molti anni, dopo la sua consacrazione alla Biennale di Venezia, avvenuta nel 1982).

Scorrono così opere di grande impatto emotivo, come Peinture (Écriture rose) o À Galla Placidia (1958-1959), vicino ad altri lavori di più modeste dimensioni e alla produzione di «mimesi» della scrittura, dove i testi degli intellettuali si sovrappongono, diventano uno «sfondo» germinale e la parola un seme organico.

Con la tecnica della pieghettatura e sgualcitura della tela, Hantaï spalanca la strada alla quotidianità, alle sue fratture e imperfezioni. Ogni brandello materico dona al quadro il necessario distacco emotivo. La superficie monocroma viene attraversata da micro-uragani gestuali, ma il puzzle dell’immagine non si ricompone, rimane senza soluzione, squadernato nei suoi umori, «oggetto-feticcio» in preda all’osservatore.

Non è un caso che l’arte di Simon Hantaï nasca da una «digestione» del Surrealismo. «Dipingo alla cieca», dirà quasi per vezzo più tardi, come a ricordare l’automatismo psichico professato dal gruppo. Prima – era il dicembre del 1952 – aveva depositato un piccolo quadro davanti la porta di André Breton che subito lo assolderà per esporre alla galleria surrealista À l’Etoile scelée. Non sarà un rapporto facile quello fra i due e presto si consumerà una burrascosa rottura. Hantaï, d’altronde, è fatto per camminare in solitudine. Il suo nuovo mercante sarà Jean Fournier che ha seguito il suo lavoro esponendolo con metodicità chirurgica. Il Pompidou gli ha dedicato solo l’anno scorso una monografica con centotrenta opere: si è trattato quasi di un atto di risarcimento dovuto: sono state rare le occasioni avute per conoscere e far viaggiare la sua opera intorno al mondo.

A rivedere oggi gran parte della sua produzione esposta a Villa Medici, Simon Hantaï conferma tutta la sua radicalità. «Come banalizzare l’eccezionale? Come diventare eccezionalmente banale? La ’piegatura’ risponde a questa inquietudine – scrive Nancy – . Le pieghe rimandano a una riflessione sul tempo e la memoria… Simon Hantaï amava mostrare una vecchia fotografia di sua madre. In questa immagine, lei è in piedi e posa le mani su una gonna nera a scacchi, lucente come il petrolio, brillante come uno specchio. È una gonna di cotone e Hantaï imputa quella lucentezza del tessuto al processo di stiratura e asciugatura attraverso una sorta di macina. Nelle pieghe delle sue pitture, c’è la traccia e il ricordo di quella gonna».