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Gunnar Gunnarsson è una delle voci principali della letteratura islandese del Novecento. Le sue opere sono state presentate da noi in tempi remoti, tra gli anni ’30 e ’40, nel momento in cui era massimo il suo successo in Germania, sostenuto dalla sua partecipazione alla Nordische Gesellschaft, che voleva avvicinare gli intellettuali del Nord al credo nazista. Proprio in terra germanica uscì infatti nel 1936 il classico Il pastore d’Islanda, presso la Reclam, che ora opportunamente Iperborea manda in libreria (nella precisa traduzione di Maria Valeria D’Avino, postfazione di Jón Kalman Stefánson, con una nota di Alessandro Zironi, pp. 135, euro 15).

È un racconto ispirato a un fatto di cronaca accaduto nel 1925 (e ripercorso da Stefánson nella sua appassionata testimonianza di lettore compulsivo di questa opera) in cui si evidenziano gli elementi principali del mondo dell’autore.

Nella sua produzione, scritta per la maggior parte in danese, Gunnarsson raffigura il suo paese di origine come luogo della purezza antica e non toccata dalla modernità che tutto mette in discussione. Qui si narra di Benedikt e dei suoi compagni, due animali, il cane Leó e il montone Roccia, che partono in condizioni climatiche proibitive, per recuperare pecore smarrite, prima che sia impossibile ritrovarle. Il suo viaggio si svolge ogni anno, da ventisette, alla vigilia di Natale, ma in questo momento si danno una serie di ostacoli e ritardi, per cui ormai tutti lo credono perduto. Infine, sia pure con molta fatica, riesce a tornare al mondo degli uomini, per i quali nutre una relazione ambivalente, tra adesione e sospetto.

Ciò che specialmente spicca è la capacità nella definizione del paesaggio come specchio dell’interiorità e la natura sacra di questo faticoso pellegrinaggio che, in primo luogo, è un itinerario del protagonista lontano dal consesso degli uomini. La sua risoluzione di affrontare un rischio estremo è infatti illuminata da una sicurezza interiore: «cos’è la sua vita, la vita degli uomini sulla terra, se non un servizio imperfetto che tuttavia è sostenuto dall’attesa, dalla speranza, dalla preparazione?».