Attrice fra le predilette di Yasujiro Ozu e Kenji Mizoguchi, con cui lavorò, rispettivamente, in otto e quindici film dal periodo muto fino al passaggio al sonoro, nel 1953 Kinuyo Tanaka decise di tentare l’avventura dietro la macchina da presa. Tanaka non è la prima donna a diventare regista nel cinema giapponese, la prima in assoluto è Tazuko Sakane nel 1936 con New Clothing, purtroppo un film perduto, ma è di certo la prima donna regista attiva durante il periodo d’oro del cinema nipponico post-bellico. Questo nonostante le forti pressioni negative di Mizoguchi, che tanto l’amò come attrice, quanto si oppose in maniera piuttosto brutale al suo passaggio dietro la macchina da presa, ma anche di un sistema, quello dell’industria cinematografica nipponica, fortemente accentrato e dominato dagli uomini.

LA VOLONTÀ dell’attrice, la sua fama e la congiuntura socio-politica dell’arcipelago – nuove leggi ed ordinanze emanate fra il 1947 e il 1952 promulgarono, almeno sulla carta, la parità di diritti fra uomini e donne – aiutarono però il suo debutto come regista. Anche quando considerata in un contesto internazionale, l’attività dietro la macchina da presa di Tanaka è da considerarsi pionieristica, visto che nello stesso periodo, nel resto del mondo, poche erano le donne registe impegnate nel cinema commerciale, si ricordino almeno Ida Lupino negli Stati Uniti e Jacqueline Audry in Francia.
Proprio per questi motivi, la retrospettiva dedicata ai sei lungometraggi realizzati da Tanaka fra il 1953 e il 1962 dalla Cineteca di Bologna, attualmente in svolgimento (11-30 marzo), è un’occasione imperdibile per esperire sul grande schermo i film, restaurati, della ancora poco conosciuta regista giapponese. Si tratta di lavori molto diversi l’uno dall’altro per genere e stile, ma che hanno in comune il fatto di portare sullo schermo problematiche legate al ruolo della donna nella mutevole società post-bellica giapponese. Il primo film, Love Letter del 1953, è in questo senso esemplare, un ritratto del Giappone post-occupazione con la presenza americana ancora molto sentita, dove la storia fra un soldato giapponese tornato dalla guerra e la donna che ha amato prima di partire, si intreccia con le difficoltà per sopravvivere di alcune prostitute, il tutto avvolto in un racconto melodrammatico che però usa un approccio quasi neorealista quando fotografa le strade della capitale e le condizioni di vita reali delle persone.

SE «LOVE LETTER» si avvale della sceneggiatura di Mikio Naruse, il secondo film di Tanaka, The Moon Has Risen (1955) proviene da una sceneggiatura scritta ma non utilizzata da Ozu che il regista stesso donò a Tanaka. Ritroviamo anche in questo film, come in molti film dell’autore di Viaggio a Tokyo, Chishu Ryu che qui interpreta un vedovo che vive assieme alle sue tre figlie. Se a prima vista The Moon Has Risen potrebbe sembrare, dal punto di vista delle scelte estetiche, un film al cento per cento «oziano» per i primi piani, le angolature usate, le dissolvenze, via via che il lavoro procede diventa qualcosa di diverso. C’è più pathos, si tratta comunque di un melodramma, e l’incredibile performance di Mie Kitahara, che spazia dal comico al tragico, sussume alla perfezione l’andamento e lo sviluppo del lungometraggio. In apparenza una storia leggera, che in secondo piano lascia però scorgere le tensioni che esistono tra città e campagna, e come la vita in città rappresenti un sogno o orizzonte a cui tendere, un diverso modo di essere e realizzarsi per le donne.

CON «THE ETERNAL BREASTS», anche questo del 1955, Takana realizza quello che è forse ancora oggi il suo film più noto, nato dalla collaborazione con la sceneggiatrice Sumie Tanaka, con cui racconta gli ultimi anni della tragica vita della poetessa Fumiko Nakajo e affronta temi delicati come il tumore al seno, il fallimento del matrimonio, l’amore filiale ed il costante rapporto con la morte, anche grazie ad un’eccellente prova d’attrice di Yumeji Tsukioka nel ruolo della protagonista. Se Love Letter era stato prodotto dalla Shin-Toho e il secondo e terzo film dalla Nikkatsu, per il suo film successivo, The Wandering Princess del 1960, la regista lavora con la casa di produzione Daiei e la sua star più popolare al tempo, Machiko Kyo. Grazie alla collaborazione con Natto Wada, moglie e sceneggiatrice per gran parte della carriera di Kon Ichikawa, Tanaka porta sullo schermo nel 1960 nel suo primo film a colori l’autobiografia di Hiro Saga, un’aristocratica che sposando un fratello dell’imperatore di Manciukuò – Stato fantoccio creato dal Giappone in Manciuria nel 1932 – si ritrovò imbrigliata nelle politiche coloniali del suo paese.

CON IL SUCCESSIVO film, Girls of Dark del 1961, Tanaka esplora il mondo della prostituzione e le conseguenze della legge che la abolì nel 1958, e lo fa raccontando la storia di una di queste donne, Kuniko, che viene mandata in una casa di recupero. Ciò che distingue questo lungometraggio da altri che affrontano questo tema è la rappresentazione dell’amore e dell’attrazione fra le donne che si trovano in questo centro, si tratta infatti di uno dei primi film giapponesi commerciali, fu prodotto dalla Toho, in cui viene rappresentato l’amore lesbico. La carriera di regista di Tanaka si conclude, purtroppo, nel 1962, quando dirige Love Under the Crucifix, un jidaigeki, film in costume, dove ancora una volta è centrale una figura femminile indomita e controcorrente, la figlia di un maestro del tè che ama incondizionatamente un samurai cristiano sposato. Dal punto di vista produttivo, il film chiude simbolicamente alla perfezione il cerchio della carriera della regista giapponese, fu infatti realizzato dalla casa di produzione Ninjin Club, guidata dalle attrici Keiko Kishi, Yoshiko Kuga e Ineko Arima, un gruppo che cercava di proteggere la libertà di attori e attrici dai lacci e dalle imposizioni dell’industria cinematografica del tempo.