Ottanta moschee chiuse, turisti e siti archeologici presidiati dall’esercito, zone militari chiuse tra le montagne e ricompense per chiunque fornisca prove di attività terroristiche. È la risposta del governo tunisino, a 24 ore dal brutale attacco nel resort di Riu Imperial Marhaba, nella località turistica di Port el Kantaoui a Sousse.

L’obiettivo è rassicurare il mondo, quello del turismo occidentale che permette all’economia tunisina di restare a galla e incassare un 7% di Pil, già crollato dal 15% dell’epoca pre-rivoluzione. Dopo l’attacco del 18 marzo al museo del Bardo, il massacro nel secondo venerdì di Ramadan rischia di interrompere il difficile percorso tunisino verso la stabilizzazione.

Per questo, ieri il premier Essid ha annunciato il pugno di ferro, a poche ore dalla rivendicazione da parte dell’Isis: su Twitter il gruppo ha celebrato l’attentatore che ha aperto il fuoco contro «membri di Stati che fanno parte dell’alleanza crociata che combatte il califfo». L’Isis ha dato un volto e un nome al giovane armato di kalashnikov (Abu Yahya al-Qayrawani), seppur le autorità tunisine lo abbiano identificato come Seifeddine Rezgui, studente di 23 anni sconosciuto ai servizi di sicurezza, proveniente da Gaafour, città povera nella regione centrale di Siliana.

Tra le misure immediate annunciate dal premier Essid, c’è la chiamata delle truppe di riserva che saranno inviate «nei luoghi sensibili che potrebbero essere target di attacchi terroristici, un piano eccezionale per garantire la sicurezza dei turisti e dei siti archeologici, che vedrà il dispiegamento di uomini armati lungo la costa e all’interno degli hotel a partire dal primo luglio».

A settembre, ha aggiunto Essid, si terrà un congresso nazionale anti-terrorismo. Nel frattempo si procederà con il denaro: ricompense saranno assegnate a chi darà informazioni su cellule dormienti nel paese. E ai sospetti, già nel mirino dei servizi di sicurezza, si tenterà di togliere spazio di manovra: il governo ha annunciato la chiusura di 80 moschee accusate di promuovere l’estremismo islamico e i cui imam sono da tempo tenuti sotto controllo perché sospettati di reclutare nuovi adepti per lo Stato Islamico.

Ma gli stranieri sono già in fuga e affollano l’aeroporto di Hammamet, mentre i tour operator chiedono agli stranieri di lasciare la Tunisia. Chi resterà o deciderà di venire sarà guardato a vista per scongiurare il dissanguamento del settore turistico su cui punta la vecchia-nuova Tunisia del tandem Essid-Essebsi. Premier e presidente, rappresentanti del partito laico Nidaa Tunes e volti noti del regime di Ben Ali (il primo ne fu ministro degli Interni, il secondo presidente del parlamento), vogliono dimostrare al mondo che la Tunisia è ancora quel modello riuscito di primavera araba che tanto piace alla comunità internazionale. Ma che cozza con la realtà sul terreno: la Tunisia è il paese che esporta più miliziani verso Siria e Iraq, 3mila secondo le intelligence internazionali, spesso addestrati in Libia e poi “jihadisti di ritorno”, pronti a creare nuove cellule in territorio tunisino.

Tutti giovani sotto i 30 anni come lo studente che venerdì ha massacrato 38 persone. A monte restano le contraddizioni latenti del paese, ancora schiavo delle piaghe che lo affliggevano sotto Ben Ali e che hanno trascinato il popolo in piazza nel 2010: una disoccupazione giovanile sopra il 30%, una diffusa corruzione all’interno delle istituzioni statali, mancati investimenti a sud e, di conseguenza, una grave disuguaglianza strutturale tra settentrione e meridione. Una crisi socio-economica mai risolta che spinge giovani tunisini verso le braccia del califfo, sirena che promette una nuova identità e una nuova società.