Passeggiando a naso all’insù tra edifici vittoriani e grattacieli di vetro nella zona turistico-commerciale di Union Street, non si sfugge a una marcetta rumorosa in arrivo da ogni dove. Tamburi ritmici, fischietti e campanelli, un biondo trecciuto capofila col megafono davanti a un gruppetto di persone che girano in tondo portando i cartelli. «No contract, no peace» scandiscono oppure «all day, all night, we stand for fight» chiedendo la solidarietà dei passanti ai quali danno volantini con le ragioni della protesta. Sono quasi due mesi che cuochi, cameriere, facchini, lavapiatti e altro personale degli hotel del gruppo Marriott sono in sciopero, andando a marciare e suonare, nella zona circa trentamila persone sono impiegate nelle mansioni più umili in questa catena di alberghi di lusso, dai profitti invidiabili.

LA BATTAGLIA di questo variopinto esercito di precari – per una paga migliore, per una protezione sanitaria e un piano pensionistico- è sintetizzata dallo slogan «One job should be enough», un lavoro deve bastare. «Dopo il mio turno di sette ore – dice Sonia Fabian, 39 anni, barista organizzata nel sindacato Unite Here – il pomeriggio aiuto in una lavanderia. I prezzi degli affitti e della vita aumentano ogni anno nella Bay Area, ormai tutti noi abitiamo in piccole località della periferia ma lo stesso non ce la facciamo ad arrivare a fine mese». E molti protestano per l’uso sempre più massiccio di touchscreen e tecnologie digitali per il check in negli hotel al posto degli addetti all’accoglienza. «Lungo tutta la nazione, una strana vibrazione, gente in movimento, un’intera generazione con una nuova spiegazione, gente in movimento» cantava più di mezzo secolo fa, nel 1967, Scott McKenzie, quello che invitava ad andare nella capitale della controcultura con un fiore tra i capelli, in San Francisco, una delle canzoni simbolo della città di nebbie e sogni. Oggi, all’incrocio tra Haight e Ashbury, musicisti un po’ improvvisati e capelloni con le giacche di pelle sfrangiate snocciolano tanti brani d’omaggio al territorio come San Franciscan Nights (portata al successo da Eric Burdon ) o California Dreamin’ sostando sotto il grande segnatempo quadrato con le lancette ferme alle 4 e 20, l’ora internazionale delle canne, l’espressione che indicava il consumo di marijuana, secondo la leggenda inventata dai Grateful Dead e altri gruppi psichedelici del tempo, il momento perfetto per accendersi un cannoncino d’erba (4/20 nel calendario anglosassone vuol dire 20 aprile, giorno santificato dagli spinellatori del pianeta).

E QUEL PROFUMO dolciastro invade persino il Financial District – un quadrilatero di colossi di cemento e acciaio disegnati da architetti famosi dove i nerd smanettoni e giovani talenti d’informatica stanno incollati tutto il giorno alle tastiere dei pc nei bar e nei fast food, oltre che negli uffici- un settore cittadino preferito da senzatetto, dropout, spiantati e mendicanti coi loro giacigli di fortuna, coperte e cartoni. «Ho lasciato il mio cuore a San Francisco/ in alto sulle colline/ Mi chiama ad essere lì dove i piccoli cable-car s’arrampicano a metà strada per le stelle/ la nebbia mattutina può raffreddare l’aria ma non m’importa/ Quando io vengo da te, San Francisco/ il tuo sole dorato risplenderà per me». Il crooner d’origine italiana Tony Bennett è uno dei tantissimi innamorati, I Left my Heart in San Francisco, del luogo bersagliato dai terremoti, quella frattura nella crosta terrestre chiamata faglia di Sant’Andrea, responsabile del disastroso sisma che colpì la città nel 1906, immortalato dal successivo film con Clark Gable e Jeannette McDonald. Questa canzone è uno degli inni ufficiali del municipio, dicono gli agiografi, perché Bennett ne fece un’interpretazione sublime alla Venetian Room dell’hotel Fairmont esibendosi davanti al sindaco di allora, George Christopher nel 1961, destino paradossale di un brano scritto diversi anni prima da due brooklyniani scettici sul trasferimento sulla West Coast. Proprio facendo campagna elettorale denunciando il folle costo della vita in città e promettendo d’impegnarsi sul problema degli affitti, a giugno London Breed, afroamericana di 43 anni, è stata eletta prima sindaca nera di San Francisco, con un appoggio dichiarato della comunità ispanica e bianca.

DI MARCETTE ossessive e allucinate era esperto l’ingegnere Hardy Fox, morto una decina di giorni fa, cofondatore e mente musicale dei Residents, il quartetto di San Mateo dal sound sperimentale. Icona dell’avanguardia artistica, il gruppo che ha deliberatamente nascosto la propria identità, presentandosi vestito in frac, cilindro e grande bulbo oculare al posto della testa, sulle scene da oltre 30 anni (ma la stampa specializzata narra di un collettivo artistico allargato con strumentisti, collaboratori e manager che si scambiano i ruoli occupandosi anche di grafica, registrazioni e tournèe) con le loro sinfonie meccaniche, vocalità distorte e un ruvido senso dell’assurdo. I Residents sono stati anche l’attrazione del Litquake, il festival letterario di San Francisco di fine ottobre, con una performance multimediale con schermi video, fumisterie e sonorità oniriche, intitolata The Brickeaters, i mangiatori di mattoni, un romanzo giallo su un milionario vincitore di lotteria che vuole avvelenare l’acquedotto di Los Angeles ed è un assoluto megalomane. Vi ricorda qualcuno?