«Napoli mi ricorda New York», diceva spesso Andy Warhol che per i vicoli della città partenopea era stato portato da Lucio Amelio negli anni Settanta. Ma a cogliere il carattere «americano» della città e della sua popolazione era stato già il filosofo marxista Alfred Sohn-Rethel che negli anni Venti aveva scritto, per la Frankfurter Zeitung, un reportage dedicato al rapporto dei napoletani con la tecnica e quindi alla loro particolare filosofia del rotto. Non solo l’arte di arrangiarsi, ma il profondo rapporto filosofico che Napoli intrattiene con tutto ciò che è frammento e solo, e proprio per questo, funziona.
A far incontrare ancora il pragmatismo americano della città collocata sullo stesso parallelo di New York, e il concetto della filosofia critica tedesca, anch’esso profondamente radicato a sud, sarà poi di nuovo l’aquila vesuviana che nel 1980 organizzerà, nella sua galleria a piazza dei Martiri, lo storico incontro tra l’Europa e l’America, ovvero tra Andy Warhol e Joseph Beuys.

PROBABILMENTE sta proprio in questo incrocio straordinario, che fa di Napoli una capitale europea e mediterranea, il senso profondo del lavoro di Gian Maria Tosatti, artista napoletano per scelta che, dopo il ciclo monumentale delle Sette Stagioni dello Spirito (2013 – 2017), propone una personale alla Galleria Lia Rumma (fino al 17). Damasa, titolo ispirato alla protagonista del Porto di Toledo di Anna Maria Ortese, è un omaggio alla città, ma anche una dichiarazione d’amore e di amicizia, intima e poetica.

SI SBAGLIEREBBE però a pensare che nello stacco dai grandi spazi metropolitani di qualche anno fa a quelli raccolti della galleria ci sia anche un passaggio di testimone, come a dire dalla politica al privato, dal pubblico al particolare. Perché il fatto è che non c’è nulla di più politico degli affetti, dell’amicizia e dell’amore, nulla di più strettamente politico del legame con una compagna di vita, una città o un alleato.
Nulla di più politico insomma degli amici con i quali si spezza e si divide il pane, quello poggiato sul tavolo della grande sala della galleria, accanto a una sedia e un letto, tra la cenere dei nostri ricordi e il suono del mare appena lasciato alle spalle, nell’anticamera di questo spazio della memoria. Nulla di più politico, ancora, dei monocromi che rimandano alla serranda crivellata dell’installazione di Tosatti a Forcella, la numero 6, dove l’oro che spunta dai fori ci ricorda che fuggire la corruzione e costruire la bellezza del comune è sempre possibile, ma è un’opera delicata e collettiva.

ALLO STESSO ORO delle grandi carte nella sala accanto si affiancano piccoli mazzi di fiori secchi, a ricordare ancora che ogni opera politica però, per resistere nel tempo, ha bisogno di essere coltivata con la cura propria degli affetti, quella cura richiamata dalle piccole divinità ospitali, non a caso figure femminili, poste a guardia del nostro viaggio esistenziale in questo spazio.

UN CAMMINO dove pubblico e privato si intrecciano sempre, come nella storia del Belpaese che emerge prepotente dalla carta da parati, con una Dalida che nell’anno della contestazione batte sul traguardo Rita Pavone, dopo aver salutato un anno prima il suo compagno e amico Luigi Tenco.
E ancora, se l’oro, molto presente nelle stanze che raccontano Damasa, ci riporta allo splendore del concetto, i frammenti di cenere e mobilio ci rimandano al rotto della prassi. Insomma, come avrebbe detto Sohn-Rethel, Weimar e New York precipitano davvero in via Chiaia, e questa bella mostra di Tosatti lo conferma.