«Raccontare questa storia, per me, è stato necessario. Quella è la mia terra, la mia famiglia vive là, la cultura del confine è parte della mia vita, ma nessuno l’aveva ancora raccontata. Toccava a me, anche perché ogni volta che ne parlavo con qualcuno, mi trovavo di fronte una visione in bianco e nero, buoni e cattivi. La rete dei contrabbandieri non è slegata dalla società, è parte della comunità, con la quale condivide i disagi e il fatto di non avere prospettive».

Abolfazl Talooni, filmaker iraniano di etnia azera, ha scelto un linguaggio poetico e uno sguardo umano per raccontare il traffico di migranti in una regione dove la rotta – nonostante sia una delle più battute – non viene mai raccontata.

IL SUO FILM DOCUMENTARIO, A horse has more blood than a human, segue una coppia di anziani che torna al villaggio, al confine tra Iran e Turchia. Una zona dove la maggioranza della popolazione è di origine azera, una minoranza in una regione tra le più povere dell’Iran, dove il traffico di esseri umani è una delle poche possibilità di tirare a campare.

La locandina del film di Abolfazl Talooni

«Gli azeri sono il più grande gruppo etnico minoritario in Iran – racconta Talooni al manifesto – ai confini occidentali dell’Iran, un luogo remoto e desolato. Il sistema scolastico impone una lingua che non è quella originaria, la scuola li emargina, c’è una mancanza cronica di lavoro. Agricoltura e pastorizia, solo quello, in una terra spesso ostile per le condizioni climatiche. Migrare, magari nella capitale Teheran, a volte è l’unica possibilità, ma vengono discriminati da una società dove la componente persiana è molto chiusa. Passare il confine, per il contrabbando o come trafficanti di migranti, spesso è l’unica alternativa per la mia gente, almeno negli ultimi 30 anni, ma è diventata più battuta negli ultimi tempi, in particolare da afgani e siriani. E sono tante le vittime di un passaggio molto duro».

La zona è montuosa, gelida in inverno e torrida in estate. Una sequenza del documentario di Talooni è realizzata in una “casa” di transito, piena di persone che aspettano il momento giusto, altre scene riprendono colonne di persone in zone che ricordano le Alpi, altri migranti ancora, di notte, stipati in furgoni.

IL PROTAGONISTA, tornato al paese, dal barbiere, ascolta il racconto di un ragazzo del villaggio, una guida, morta per la caduta dal cavallo con cui guidava i migranti oltre il confine. Ma quanto l’argomento è esplicito tra gli azeri iraniani?

«Da un lato la maggioranza degli uomini della regione sono o sono stati coinvolti in qualche modo nel traffico: guidando un mezzo, facendo da guida attraverso le montagne o ospitando i migranti di passaggio – racconta Talloni – da un altro lato viene vissuto come un lavoro temporaneo, per metter via dei risparmi. I loro numeri di telefono vengono dati ai migranti dai trafficanti di Teheran, che lo stato iraniano tollera, ma se prendono i locali mentre portano le persone in Turchia le pene sono durissime, perché con gli azeri la mano della giustizia è più pesante. I locali coinvolti nel contrabbando non hanno legami con quelli della parte turca, anche se esistono relazioni familiari, perché ci sono azeri anche dal versante turco del confine. In generale l’argomento non viene trattato pubblicamente, tutti sanno, ma nella comunità è disapprovato. Ci sono alcuni membri della comunità che lottano per il cambiamento, per tenerli lontani dalla tentazione del contrabbando, ma in generale si riconosce a queste persone di non avere alternative».

È la logica del confine, tra Iran e Turchia come in tutto il mondo: lo “scafista” come obiettivo della narrazione che deresponsabilizza governi, politiche, logiche. Una delle voci che Talooni raccoglie è proprio quella della madre della guida morta, che laconica lo piange, dicendo che «non ha avuto scelta dalla vita».

LA RESPONSABILE dei programmi nella regione di Minority Rights Group International (MRG), un’ong che da oltre 50 anni si occupa di minoranze, conferma il quadro socio-economico descritto dal documentario di Talooni.

«C’è un sottosviluppo generale di molte province minoritarie in Iran, in particolare dei territori di confine. Le province azere sono profondamente trascurate e le opportunità di lavoro per i suoi residenti sono scarse. Queste aree sono in gran parte terre agricole, ma gli agricoltori delle minoranze devono affrontare sfide come la scarsità d’acqua e la salinità del suolo senza investimenti o supporto da parte dello stato. I giovani azeri spesso non hanno altra scelta che impegnarsi nel contrabbando di migranti alla frontiera per guadagnarsi da vivere, anche se è molto rischioso», racconta al manifesto MRG.

LO STIGMA DEI PERSIANI verso gli azeri, in Iran, non è solo culturale. In fondo gli azeri vengono percepiti come una componente “turcofona”, e proprio le relazioni burrascose tra Iran e Turchia finiscono per colpire la minoranza azera in Iran.

Al confine, a dicembre scorso, la Turchia ha terminato la costruzione di un muro di separazione lungo 81 chilometri e presidiato dall’esercito di Ankara. La motivazione ufficiale di Ankara è che l’Iran chiude un occhio sui movimenti dei gruppi armati curdi che, secondo l’intelligence turca, hanno in Teheran un alleato silenzioso, oltre a citare anche la migrazione illegale.

In realtà le tensioni tra i due paesi sono tutte politiche. La minoranza azera, però, ne paga le conseguenze, venendo spesso additata dall’opinione pubblica iraniana come una “quinta colonna” turca.

«C’è una pressione significativa sugli azeri da parte dello Stato iraniano – conferma MRG -. Gli azeri, così come altre minoranze come curdi, baluci e arabi ahwazi, sono spesso soggetti ad arresti arbitrari, detenzioni e persino esecuzioni per espressioni o rivendicazioni di autonomia culturale. Questo si riflette nei dati carcerari iraniani, i quali mostrano che le minoranze etniche costituiscono almeno tre quarti dei prigionieri politici dell’Iran. Esistono pregiudizi e stereotipi sugli azeri e su altri gruppi etnici che vengono promulgati dai mass media e sui social network».

Chi sono quelli che attraversano quel confine? «La maggior parte degli attraversamenti riguarda cittadini stranieri, in particolare siriani e afgani, ma anche qualche iraniano disperato che ha problemi con le autorità ci prova. Gli azeri hanno forti legami emotivi con le loro terre, difficile che le abbandonino. Anche quelli che emigrano a Teheran tendono alla fine a tornare», risponde il regista.

I NUMERI UFFICIALI non esistono, ma anche le organizzazioni internazionali hanno registrato un aumento del passaggio su questa rotta, in particolare di afgani e siriani, nonostante sia conosciuta come molto pericolosa. Il network InfoMigrants, un anno fa, ha ricevuto e diffuso un video girato da un gruppo di uomini pakistani: solo per quel gruppo, gli attivisti di Van hanno ricostruito come ci fossero almeno 13 morti e 60 dispersi.

L’anno prima ben 26 cadaveri congelati vennero rinvenuti a primavera dopo lo scioglimento delle nevi. Dal versante turco, secondo la Van Bar Association, c’è ormai un cimitero di vittime senza nome della tratta di confine tra Iran e Turchia.

Il documentario di Abolfazl Talooni è stato selezionato per tredici festival internazionali, tra i quali i prestigiosi Visions du Reel in Svizzera e il BFI London Film Festival. «Toccava a me raccontare questa storia – , conclude il regista – perché ho avuto la possibilità di un’altra vita. Non si può giudicare la vita di confine senza conoscere quanto sia doloroso, per tutti, non avere scelta».