Se la Svizzera non detiene il primato per i ponti più grandi e famosi, possiede però quello della loro più visibile relazione con il paesaggio, in particolare di quello alpino. Le ragioni risalgono agli albori della costituzione dello stato federale (1848) quando si avviò il processo che Oliver Zimmer chiama della «naturalizzazione della nazione» e della «nazionalizzazione della natura». Un indirizzo che fu sostenuto dai Politecnici di Losanna e di Zurigo fin dagli anni della loro fondazione. Tra i sostenitori di questo indirizzo ricordiamo gli ingegneri Karl Wilhelm Ritter e Robert Maillart. Il primo per il calcolo dei ponti in ferro usò la statica grafica invece delle formule algebriche, mentre il secondo affinò un sistema statico unitario per plasmare il cemento armato dei ponti donandogli forme snelle e sottili.

QUALE IMPORTANTE ruolo abbia avuto il disegno, sia per calcolare l’azione delle forze, sia per configurarne la sagoma esteticamente più coerente, è evidente se si viaggia in uno dei cantoni elvetici in treno, in auto o se si prende un sentiero. Dal dopoguerra fino a oggi, in continuità con la tradizione politecnica, i requisiti progettuali dei ponti in Svizzera sono stati sempre molto elevati. Jürg Conzett, ingegnere con studio a Coira, ha iniziato a compilare circa un decennio fa un «inventario personale» delle opere d’ingegneria (Kunstbauten) sparse nei differenti «comparti territoriali» elvetici. La sua singolare ricognizione fotografica di ponti, passerelle, gallerie e strade, compiuta con il fotografo Martin Lisi la incontrammo nel 2010 nel padiglione svizzero durante la XII Mostra Internazionale di Architettura di Venezia. Adesso, con il titolo Landscape and Structures, i centosessanta scatti in bianco e nero che costituiscono l’impresa di Conzett e Lisi, giunge al Teatro dell’Architettura di Mendrisio (fino al 7 luglio), integrata di nuovi soggetti e con ventidue pregevoli modelli lignei eseguiti da Lydia Conzett-Gehring dei ponti progettati da Conzett con il suo socio Gianfranco Bronzini, mentre il catalogo è ancora quello di Venezia, edito dall’editore zurighese Scheidegger & Spiess di impeccabile qualità grafica.

L’ESPOSIZIONE ha inizio al piano terra con una serie di scatti invernali del Sittertobel, un’area geografica con una così alta densità di ponti costruiti in più di un secolo che rappresentano una sintesi dell’ingegneria civile elvetica. Si va dal viadotto ferroviario sul fiume Sitter (1910), il più alto della Svizzera, con i suoi piloni in pietra che, consumati dal tempo, furono integrati in calcestruzzo così alla perfezione che è quasi impossibile notarne la differenza, al tardo-settecentesco ponte pedonale in legno di Kubel di Hans Ulrich Grubenmann, fino al più recente ponte ad arco di Fürstenland (1940), che fece da modello ad altri per la sua rigorosa esecuzione.
Sono vari i motivi che attraggono l’interesse di Conzett per i ponti e non fa differenza se sono di piccole dimensioni, come quelli che oltrepassano un’arteria stradale nella pianura della Linth, o corpulenti e austeri come il viadotto Rümlingen (1856) di Etzele e Pressel con i suoi conci in pietra differentemente lavorati. Può attrarlo l’ampio spazio che racchiude l’antico ponte coperto in legno sull’Aar a Olten, «preludio ai palazzi» storici del centro storico, oppure, quello sulla Reuss a Melling, dove la sagoma della trave in acciaio con il bordo inferiore curvo «viola le norme strutturali», ma soddisfa le ragioni dell’estetica. Non c’è mai, infatti, per Conzett «un punto di vista puramente tecnico» che giustifichi da solo la scelta progettuale. Il progetto deve «affrontare alla radice contemporaneamente più problemi» come prevede il pensiero concettuale. Ne espose i meccanismi nel 2007 al Politecnico di Torino in una lectio magistralis, indicando l’«esempio lampante» dei ponti della ferrovia di Albula costruiti tra il 1890 e il 1903.
Sotto forma di viadotti in pietra naturale questi sono resistenti, economici, nello stile romantico nazionalista, insomma una «gesamtkunstwerk multisciplinare». Tranne una sosta a Zurigo, dove lo sguardo di Conzett e Lisi si posa non sui ponti più famosi, ma su interventi di ingegneria idraulica nel letto del fiume Sihl che furono molto contestati; e poi una tappa a Basilea, sull’asta dell’Alto Reno con i due ponti di Maillart degli anni Dieci a Rheinfelden e a Laufenburg dalle sagome classiche e eleganti, l’indagine si svolge perlopiù nei territori montani.

È LÌ CHE SI COGLIE la tensione tra natura e cultura, storia e artificio, e la «cosa artificiata» assume, per dirla con Leopardi, molteplici significati. In questa casistica rientrano i due ponti pedonali di Conzett-Bronzini-Gartmann nella Gola della Viamala, inseriti alla perfezione nello scenario naturale grazie all’impiego di materiali tradizionali e le loro forme armoniche.
Tuttavia l’attenzione alla topografia non è inferiore anche dove la rete dei trasporti impone infrastrutture più grandi. Ne sono un esempio, i ponti monolitici in calcestruzzo ad arco sul quale le nervature sorreggono la soletta della carreggiata: dal Viadotto di Langwies (1914) ai ponti nel Cantone Vallese del «figurativo» Alexandre Sarrasin (Ponte di Bousy a Evoléne, 1973; Viadotto di Sembracher, 1953), maestro di pragmatismo nel conciliare ogni elemento del ponte alla sua funzione tecnica e formale. Ciò che più fa riflettere e che davanti alle aspre condizioni orografiche gli ingegneri svizzeri abbiano risposto con una varietà di soluzioni che hanno rappresentato ogni volta una sfida dovendo integrare contesto, sicurezza, economicità ed estetica. Il risultato è stato sempre eccellente. Nel 1908 Hermann Behrmann scrisse nella sua guida che in viaggio era «sensibile alle bellezze di madre natura», ma che amava «distrarre lo sguardo per ammirare i dettagli delle infrastrutture».

NON PASSANO INOSSERVATE, ad esempio, le opere di Rino Tami in Ticino, il quale fornì prove esemplari di coerenza costruttiva e formale per come si tratta un muro di sostegno, l’ingresso di una galleria o si disegna una strada in alta quota (Portale della Galleria Pardorea e Viadotto di Piota Negra, 1980). Altrettanto si può dire dei ponti di Christian Menn, il più abile interprete della lezione di Maillart. Nell’estrema leggerezza del Ponte Sunniberg (1998), i suoi piloni sagomati «incorniciano» il paesaggio così come pure accade nel Ponte sul Ganter (1980) nonostante sia possente e monumentale. Entrambi «deliziano lo sguardo»: corpi astratti tra le montagne, ma così esemplari nell’ideazione da rendere la Svizzera un paese speciale per le sfide vinte dai suoi ingegneri.