Vittorio Taviani era nato a San Miniato il 20 settembre del 1929, ora se n’è andato dopo una malattia che lo aveva segnato nell’ultimo periodo. Non conosciamo i motivi reali per cui non ci saranno funerali pubblici per Vittorio. Riservatezza, certo. Ma ci piace credere che lui e i suoi cari vogliano rifuggire da un vezzo tanto diffuso quanto discutibile: gli applausi ai funerali. No, meglio il silenzio, come ha voluto ricordare Nicola Piovani. E un abbraccio ideale, non per questo meno affettuoso, a Paolo, il fratello di due anni più giovane con cui Vittorio ha condiviso cinquanta anni di cinema e di vita e alla famiglia tutta.

Di famiglia toscana, il babbo avvocato, antifascista, i fratelli Taviani, impossibile per ora scindere le loro storie, si ritrovano colti, benestanti e impegnati politicamente alla fine della guerra, oltre a essere animatori del cineclub di Pisa. Il colpo di fulmine arriva con il cinema di Rossellini. Si trasferiscono a Roma e con Valentino Orsini, ex partigiano e cinefilo come loro, cominciano come documentaristi, prima cercando di convincere Cesare Zavattini, con San Miniato luglio ’44 (1954). Ci riescono non senza qualche gaffe presentandosi non annunciati al suo portone. Poi con il grande e indimenticato Joris Ivens è la volta di L’Italia non è un paese povero (1960). Impegno politico e sociale quindi. Ancora con Orsini firmano altri due titoli Un uomo da bruciare (1962) con Volonté che interpreta Salvatore Carnevale, sindacalista siciliano in lotta con la mafia, poi I fuorilegge del matrimonio (1963), sei episodi a sostegno del cosiddetto piccolo divorzio. Orfani del compagno di strada Valentino, che prosegue in solitaria, e di Palmiro Togliatti, morto a Yalta, realizzano il primo film totalmente loro: I sovversivi (1967), utilizzando immagini di repertorio dei funerali di Togliatti come sfondo alle vicende esistenziali di alcuni compagni profondamente segnati da quel momento. Il titolo del film viene da una curiosa nota della questura che aveva classificato anni prima i due registi come sovversivi. Tra gli interpreti anche un impensabile Lucio Dalla.

Nonostante il discreto successo Sotto il segno dello scorpione (1969) non è un film riuscito quanto quelli successivi. San Michele aveva un gallo (1972) e Allonsanfàn (1974) sono due titoli straordinari che tornano all’800 per cogliere gli umori del momento, un respiro storico che ripesca il cinema di Rossellini per andare oltre, superare neorealismi e dogmatismi. Non esiste appassionato di cinema che all’epoca non abbia amato, visto e rivisto questi film. E tocca proprio al padre spirituale Roberto Rossellini, presidente di giuria a Cannes, consacrarli con la palma d’oro al film successivo: Padre Padrone (1977).

Da quel momento la cinematografia dei fratelli procede in maniera oscillante, nel corso dei decenni, alternando anche la produzione con film televisivi, sempre di livello, ma non più «magici» come quelli precedenti. Bisogna così aspettare un’intuizione geniale per ritrovarli di nuovo ai piani alti festivalieri. Cesare deve morire (2012), un allestimento shakespeariano in bianco e nero con i carcerati di Rebibbia come interpreti, si aggiudica l’Orso d’oro a Berlino e ottiene il plauso della critica, compresi quanti non avrebbero scommesso un euro su di loro. Il resto è storia recente, lo scorso anno è uscito Una questione privata, tratto da Fenoglio e per la prima volta, nonostante sia stato pensato in coppia il film è firmato per la regia dal solo Paolo.

Tempo prima Vittorio era stato vittima di un incidente, non più giovanissimo il suo corpo aveva cominciato a dare qualche segno di debolezza. Comunque lucido per concepire, scrivere, vedere i giornalieri e litigare, come sempre, con Paolo. Questa volta però al telefono, perché provato non aveva potuto assistere alle riprese sul set. Vittorio, con Paolo, ha così compiuto idealmente la sua parabola artistica tornando a raccontare un episodio della Resistenza. Vista però da un punto di osservazione particolare, umano piuttosto che politico. Un buon motivo per essere fiero di una carriera sempre attenta al sociale e alla politica, senza peraltro trascurare la vita. Chi li conosce bene racconta che Vittorio, quello coi baffetti e col berrettino bretone come accessorio imprescindibile (forse perché lui calvo era invidioso della chioma di Paolo) fosse sempre pronto a scherzare, a vivere, senza mai trascurare quel tratto di curiosità sincera che solo i più attenti tra gli artisti possiedono). Ci sono molte cose create da Vittorio insieme a Paolo che rimangono nella memoria collettiva. Dalla filastrocca che apre il film «San Michele aveva un gallo, rosso bianco verde e giallo e, per addomesticarlo, gli dava latte e miele» quando il bimbo rinchiuso per castigo nell’armadio la canta per darsi coraggio, cosa che poi farà anche quando finirà in galera come anarchico.

O ancora Marcello Mastroianni, apparentemente così lontano dal loro cinema, interprete di Allonsanfàn. Senza trascurare David Riondino trafitto dalle lance in La notte di san Lorenzo. E ancora Franco e Ciccio nella rilettura della Giara di Pirandello in Kaos. Già perché poi il cinema dei Taviani è stato sistematicamente legato alla letteratura, alla musica, all’arte, spesso senza dimenticare di raccontare quelli che sono stati sconfitti dalla storia. Perché non è detto che avessero torto e comunque meritavano di essere raccontati con grande passione.