Improvvisamente, la nebbia della memoria si dirada. La nebbia che avvolgeva nomi imparati sui banchi di scuola, e poi, negli anni, privati di una loro, precisa, identità. Mesopotamia, Babele, Ninive, Nabucodonosor, Gilgamesh, Assurbanipal, Semiramide… Storia e geografia che hanno tempo e confini, miti e leggende che tempo e confini non conoscono. Improvvisamente, a Venezia, in Campo Santo Stefano e in cima alla scalinata di Palazzo Loredan, una mattina di metà gennaio, la nebbia della memoria si dirada. E quei nomi, quella storia e quella geografia, quei miti e quelle leggende, si riconsegnano a te. Chiusi negli spazi trasparenti di una mostra, dove l’oscurità indebolita soltanto da poche e giuste luci si fa complice dell’attenzione. Prima dell’alfabeto, Viaggio nella Mesopotamia alle origini della scrittura, è il titolo di una mostra che ai ricordi quasi estinti dei banchi di scuola restituisce forza e conferisce loro il dono dell’emozione. Se prima di entrare ti avessero detto che dentro le vetrine di Prima dell’alfabeto, duecento pezzi provenienti dalla Collezione di Giancarlo Ligabue, avresti trovato per lo più tavolette di argilla e sigilli cilindrici, forse ti saresti inventato una buona scusa per rimandare l’occasione. Commettendo un piccolo, imperdonabile, errore. Frederick Mario Fales, assirologo e studioso del Vicino Oriente, definisce la mostra, di cui è curatore, ‘da meditazione’. Come certi whisky, aggiunge con un sorriso da esperto non di sole antichità. È così, ma occorre far precedere la meditazione da una sorta di Bignami, tale per obbligo di spazio, che identifichi luoghi e date degli eventi.
IRAQ, 3200 A.C.
Mesopotamia, la terra tra le acque del Tigri e dell’Eufrate, oggi assai più brevemente e tragicamente Iraq, 3200 avanti Cristo, l’anno che segna la nascita della scrittura cuneiforme, incisa su centinaia di migliaia di tavolette e sigilli. Saranno loro, nel corso dei millenni, a testimoniare di commerci, trattative, accordi, acquisti di case e terreni, decisioni giuridiche, pratiche d’usura, adozioni infantili, perfino di tangenti in cambio di favori. Racconteranno vita e imprese dei sovrani, vita quotidiana, pozioni mediche, pratiche religiose, avvenimenti della storia, celebrazioni. Tramanderanno la mitologia della nascita dell’uomo e del diluvio universale, dell’eroe Gilgamesh e del suo amico Enkidu, della ribellione degli dei Igigi al dio Enlil che li ha fatti schiavi del lavoro. Approderanno in Siria, sulle sponde dell’Eufrate, in Persia. Daranno involontariamente corpo a un incredibile patrimonio di archivi e biblioteche, dimostrando che, duemila anni in anticipo sui fenici e tremila e seicento sugli arabi, la Mesopotamia aveva compreso l’enorme importanza della scrittura. Occorrerà arrivare al XVII secolo perché l’Occidente decifri quei segni, riesca a interpretare ciò che su tavolette e sigilli avevano lasciato gli scribi e gli sfragisti. Il poligrafico romano Pietro Della Valle racconta nel suo Viaggi delle gigantesche iscrizioni ‘in caratteri sconosciuti’ da lui ammirate in Mesopotamia, durante un pellegrinaggio in Terra Santa agli albori del ’600. Carsten Niebhur, un secolo e mezzo dopo, unico superstite di una spedizione, disegna le iscrizioni di Persepoli. Il linguista Georg Friedrich Grotefend, nel 1802, è il primo a decifrare la scrittura cuneiforme. Sempre nella stessa epoca, il baronetto inglese Henry Creswicke Rawlinson, sospeso a settanta metri di altezza, copia e poi riesce a tradurre l’iscrizione trilingue di Dario I incisa sulle rocce di Bisutun, Iran; Paul Emile Botta e Austen Henry Lavard scoprono i resti della città di Ninive. A metà del ’900, Jean Bottéro traduce il Codice di Hammurabi. Meditazione ed emozione sono alchimia che rende difficile dare priorità.
DOCUMENTI E SIGILLI
Dunque non resta che citare. La busta d’argilla, XIX secolo a.C., con tavoletta all’interno, promemoria di un quantitativo di rame, certificato da firme; la tavoletta del XXV secolo a.C. comprovante l’acquisto di una casa; la Tavoletta dei Messaggeri, 2065/ 2005, a.C., elenco di razioni di birra, olio, farina, pane, grasso; la tavoletta delle prescrizioni mediche per una partoriente corredate da due incantesimi, Primo Millennio a.C.; il calco di cilindro con iscrizione di Ciro II di Persia, V secolo a.C., che legittima la conquista di Babilonia. Nella splendida selezione dei sigilli, curata dall’archeologa Roswhita Del Fabbro, l’aquila Imdugud e alcuni bevitori che attingono birra da un vaso tramite lunghe cannucce; il sigillo incastonato in un anello, due capridi sormontati da figure alate; il tondo dell’orante, mani alzate in preghiera davanti a una creatura ibrida; la Dea Nuda, alla sua destra la dea Lama e a sinistra un sovrano armato di mazza. Emozioni e stupore regala il frammento di bassorilievo assiro da Dur-Sharrukin, oggi Khorsabad, Iraq, che raffigura il re Sargon in abito cerimoniale; le meravigliose collane ritrovate nelle tombe del cimitero di Ur; l’albero sacro e tre geni alati, sulle placchette dell’VIII secolo a.C., in oro; le scene dal mito di Etana, tredicesimo re della prima dinastia di Kish, 3000 a.C. Dal ciclo epico dell’Epopea di Gilgamesh, 2600 anni prima di Cristo ‘L’umanità conta i suoi giorni, qualunque cosa faccia è vento’. Nella terra dei due fiumi ha disegnato su piccole tavole d’argilla il nostro futuro.

I LUOGHI DEGLI ANTICHI SITI DISTRUTTI DALL’ISIS

9 novembre 1993. Sulle reti televisive del mondo intero scorrono le immagini della distruzione del ponte di Mostar, lo Stari Most, Bosnia-Erzegovina. In una manciata di secondi, i secessionisti croati fanno macerie del ponte ottomano, costruito quattro secoli prima. 12 marzo 2001. Lo «spettacolo» si ripete a Bamyan, Afghanistan. In una sequenza impressionante, girata e diffusa dai talebani stessi, le immense statue del Buddha, III e V secolo, si sbriciolano come pane raffermo dentro le nicchie che li accoglievano. Indignazione, dolore, sgomento per la morte dello Stari Most e dei Buddha si erano allora accompagnati alla speranza, alla convinzione, che immagini come quelle non le avremmo viste mai più. Speranza e convinzione dissolte nell’elenco delle stragi archeologiche compiute dall’Isis tra il 2015 e il 2016.
Iraq: distruzione di buona parte delle mura di Ninive, della città assira di Nimrud, delle opere del museo archeologico di Mosul. E sempre a Mosul, della Porta di Dio, del monastero di Sant’Elia, del mausoleo sciita di Fathi al-Kahen. Distruzione della moschea di Al-Arbahin a Tikrit e delle quaranta tombe omayyadi, della tomba e moschea del profeta Jirjis, del santuario dell’imam Awn al-Din, di una delle tombe presunte del profeta Daniele, della tomba e moschea del profeta Giona, delle rovine assire di Dur-Sharrukin.
Libia: distruzione dei santuari sufi vicino a Tripoli.
Mali: distruzione dei mausolei e dei monumenti sufi a Timbuctù.
Siria: distruzione del sito assiro di Tal Ajaja e del monastero di Sant’Elian a Qaryatayn. Palmira: distruzione del leone di al-Lat, della tomba di Muhammad bin Ali, del sepolcro di Shagaf, dei templi di Baal Shamin e di Bel, dell’Arco di Settimio Severo. Decapitazione del direttore del sito, Khaled Assam, ottantadue anni. Il 26 marzo 2016 Palmira viene riconquistata dall’esercito siriano con l’appoggio dell’aviazione russa, ma il 10 dicembre torna in mano all’Isis, che il 20 gennaio di quest’anno diffonde la notizia di aver distrutto il Tetrapilo e la facciata del Teatro Romano.
Il 10 dicembre è anche il giorno in cui, a Damasco, si è svolto un convegno internazionale di archeologi sullo stato e il futuro del patrimonio siriano, promosso dal governo. Molti accademici esprimono il proprio dissenso nei confronti di un’iniziativa che si svolge proprio mentre ad Aleppo è in corso l’offensiva finale contro l’Isis, certamente foriera di altri morti e altre distruzioni. Essere lì, affermano, significa avallare indirettamente il regime di Bashar al Assad. Il più deciso nel contestare il convegno è l’archeologo Marc Lebeau, che lamenta un atteggiamento di indifferenza, chiede il rispetto della lotta del popolo siriano, accusa chi continua a lavorare nel Vicino Oriente di sapere bene quanto lì i diritti umani siano violati «…gli archeologi di prima (prima dello scoppio della guerra civile nel 2011, ndr) non erano in contatto con il regime né erano coinvolti nella propaganda». Lebeau e i dissidenti stanno lavorando a una Carta degli archeologi in tempo di guerra. «Ho concluso la mia ultima lezione dicendo ai mei studenti ‘In una vita normale avrei dovuto augurarvi di vedere e godere di molte più cose rispetto a quelle che ho visto io. Non ve lo posso dire. Perché oggi voi non potete andare in un gran numero di paesi che ho visto e studiato. Per molto tempo sarà così’». È l’esordio dell’incontro con Frederick Mario Fales, professore ordinario di Storia del Vicino Oriente Antico all’Università di Udine, da poco in pensione.
Altrettanto perentorio è Fales nell’affermare la fine di un’epoca: «Dal secondo dopoguerra abbiamo vissuto un sessantennio estremamente felice per l’archeologia orientale, di legame con le nuove democrazie della regione che in alcuni casi hanno cercato di sviluppare le classi dirigenti degli archeologi e degli studiosi. Abbiamo potuto intervenire in progetti di salvataggio sul Tigri e sull’Eufrate; abbiamo lavorato nello Yemen. Un periodo magico. Tutto questo ci è scoppiato in mano perché le cosiddette Primavere arabe si sono rivelate un fallimento, una democratizzazione senza regole».
Insieme al rimpianto professionale, quello umano «Bravissima gente, i siriani. Finché siamo rimasti lì, abbiamo pianto con loro ai funerali e fatto festa ai matrimoni. Sono diventate delle belve umane. Mi fa impressione, mi fa riflettere, pensarli prima, pacifici e amici». Pessimista convinto si dichiara il professore anche rispetto alle modalità di rinascita della Siria: «Non sarà ricostruita come io e lei vorremmo. La Siria non tornerà più a essere quella dei suq meravigliosi nelle città, dei grandi alberghi, dei quartieri popolari, delle grandi campagne e dei villaggi. Ci saranno, se ci si arriverà, una reindustrializzazione nuova, una ricrescita non necessariamente rispettosa del territorio, perché nessuno ha detto che occorre esserlo». E l’archeologia? «Pensare di ritornare sui siti, di riaprire la casa del guardiano, è una follia. Se mai succedesse, ci faremo scrivere i permessi in arabo o in cirillico?».

«Prima dell’alfabeto» nasconde nell’involucro delle sue vetrine narrazioni di usanze e rituali, miti e leggende, che hanno incredibili analogie con altri, ad altre latitudini e in altre civiltà. Prendete la tavoletta in argilla ricavata dal sigillo cilindrico ‘Bevitori di birra con l’aquila Imdugud’, 3000 a.C. Nella parte superiore, i personaggi, per bere, affondano lunghe cannucce in un grande recipiente. Lo stesso, ancora oggi, fanno gli uomini dell’etnia Qiang, nella provincia di Sichuan, Cina. Altrettanto sorprendente la coincidenza che riguarda la tavoletta con gli ingredienti di un infuso per aiutare il momento del parto. Il testo dà istruzione alla donna di accovacciarsi sopra la bocca del recipiente che contiene l’infuso posto su un braciere, in modo che i vapori aiutino la dilatazione. Le ricerche di Roswhita Del Fabbro l’hanno condotta a un’illustrazione del XIX secolo, dove alcune donne africane sono ritratte in identica postura. Una delle sale della mostra diffonde una voce maschile che si lamenta sommessamente. Denuncia il suo stato di prostrazione, gli atti di contrizione rivolti al dio; afferma di aver esplorato il suo animo senza riuscire a trovare una ragione o una colpa che giustifichino tanta sventura. Chiede «Per quanto tempo non avrai cura di me e non mi assisterai?» Il dio lo salva l’uomo e lo esorta «… ungi colui che si è bruciato, dai da mangiare all’affamato, dai da bere acqua all’assetato». Il pensiero corre subito a Giobbe e alle Opere di Misericordia chieste da Gesù nel Vangelo secondo Matteo, ma il testo del lamento, in lingua sumerica, risale al XIX secolo a.C. ed è noto come Tema del Giusto sofferente. Creazione dell’uomo e Diluvio Universale sono narrati nel Poema di Atrahsis, composizione databile al 1700 a.C. circa. Subito dopo la cosmogonia, il dio Anu è salito in cielo e il dio Enku è sceso nell’Apsu, l’abisso di acque. Della terra è divenuto sovrano il dio Enlil. Che impone agli dei Igigi di scavare il Tigri e l’Eufrate, e svolgere durissimi lavori. Duemila e cinquecento anni dopo gli Igigi si ribellano. Enlil, spaventato dal timore di eventuali guerre, accetta, seguendo il consiglio di Anu, di creare l’uomo. Il compito è affidato alla Dea Madre, Mami, che sacrificando il dio We (dio dell’intelligenza), ne mischia le carni e il sangue all’argilla. Convoca poi gli Igigi, esortandoli a sputare sull’impasto. Nasce così l’uomo, cui Enlil assegna il dovere del lavoro. Ma il frastuono prodotto dall’umanità, che in milleduecento anni si è moltiplicata, diviene per Enlil così insopportabile da indurlo a scatenare un’epidemia. Il saggio Athrasis intrattiene buoni rapporti con il dio Ea, che gli suggerisce il modo di fermarla. Una seconda epidemia e una carestia cesseranno i loro effetti sempre grazie all’intervento di Ea. Quando Enlil decide il Diluvio Universale, è ancora Ea a spronare Athrasis affinché costruisca una barca per salvare sé stesso e le specie animali. La barca approda in cima a un monte. Enlil, placata la sua ira, concede vita eterna ad Athrasis. (l.d.s.)

LA MOSTRA
A Venezia, Palazzo Loredan, Campo Santo Stefano fino al 25 aprile. Raccomandato vivamente l’acquisto del catalogo edito da Giunti, 40 euro, curato da Adriano Favaro. Il volume, oltre a presentare i reperti esposti attraverso splendide immagini fotografiche, guida il lettore dentro la storia della Mesopotamia e della scrittura cuneiforme. Gli otto capitoli corrispondono alle sezioni della mostra, dal quadro geografico d’insieme alla decifrazione dei testi, passando per il lavoro dello scriba e dello sfragista, il rapporto tra uomini e dei, i sovrani e le loro gesta, la vita quotidiana. Di particolare attualità e interesse la prefazione firmata da Frederick Mario Fales. Per informazioni: 041-2705616 www.primadellalfabeto.it