A meno di non essere divorati dalla curiosità, immagino che la motivazione principale per intrattenersi con cinquecento pagine di rivelazioni biografiche, aneddoti, testimonianze, intrecci tra frammenti di libri e passaggi della vita di David Foster Wallace abbia a che vedere con la nostalgia. Prolungare l’opportunità di intrattenersi con la figura di questo scrittore così singolare, ora che si può presumere di non avere niente altro di suo da leggere, è tutto quanto pertiene alle nostre possibilità: perciò la gratitudine con la quale anche chi è meno avido di dettagli biografici accoglierà Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi. Vita di David Foster Wallace (Stile libero, pp. 505, euro 19,50), scritta da D. T. Max, valido interprete del new journalism presso il New Yorker.

L’autore e l’oggetto del suo libro non si sono mai incontrati, l’unica occasione che ebbero di stare inconsapevolmente sotto lo stesso tetto fu alla festa per l’uscita di Infinite Jest nel 1996, quel party a proposito del quale Foster Wallace scrisse a DeLillo che «se Dio esiste, allora sarà anche l’ultimo». Dunque, ogni tratto della parabola descritta da D.T. Max è il frutto di centinaia di testimonianze raccolte sia nell’ambito della famiglia dello scrittore che fra gli amici, e soprattutto carpite alle due persone che hanno accompagnato con più costanza Foster Wallace nella sua carriera di scrittore: Michael Pietsch, l’editor di Little, Brown che ha messo insieme il manoscritto del Re Pallido, l’ultimo romanzo di Wallace incompiuto; e Gerard Howard editor alla Penguin, paziente stampella degli esordi dello scrittore americano.

Nessun affondo psicologico grava sulle pagine di questa biografia, i cui momenti più drammatici avrebbero potuto facilmente indurre a speculazioni interpretative, e sebbene sia evidente la conoscenza profonda che Max ha dei libri di Foster Wallace e della loro genesi, anche gli accostamenti tra vita e opera sono discreti e plausibili: il più delle volte li giustifica l’accertamento della contiguità fra fatti, e trasfigurazione di quei fatti in realtà romanzesca, altre volte il riflesso autobiografico viene esibito, ma non più di quanto lo stesso autore abbia autorizzato nel corso delle interviste che gli è capitato di concedere. Nulla, dunque, mancherebbe per penetrare meglio la specificità di un autore così anomalo, se non fosse che ci manca tutto della sua infanzia, ossia della stagione in cui la personalità di ognuno di noi prende forma, l’immaginario al quale attingeremo per tutta la vita comincia a plasmarsi e le costruzioni difensive già identificano le peculiarità di un carattere.

Del resto, nemmeno se lo stesso Foster Wallace ce l’avesse raccontata sapremmo qual è la verità dei fatti, e dovremmo dunque accontentarci dei suoi vissuti a posteriori: che ci direbbero più o meno tutto quanto conta davvero, ma non esaurirebbero perciò le pretese di una oggettività inemendabile. Del resto ogni biografia è votata all’arbitrio derivato dalla sua lacunosità, e questa di Foster Wallace si affida, se non altro, a una scrittura patentemente di servizio, che non conosce picchi espressivi ma al tempo stesso non cede mai alla tentazione di virare verso il romanzesco.

Forse uno tra gli aspetti più affascinanti della vita di David Foster Wallace sta nel contrasto fra il suo disordine e il rigore estenuante cui sottoponeva i dettagli di quanto voleva descrivere, spesso raggirando le richieste di tagliare i suoi romanzi fluviali con l’espediente di proiettare nelle sue famose note a piè di pagina ciò che avrebbe dovuto eliminare. La trasandatezza del suo vestiario, che nemmeno quando giocava a tennis sapeva assecondare la sobrietà del candore prescritto, e il caos delle case che ha abitato, sembravano portare notizie dei travagli della sua psiche; ma poi quel disordine si convertiva sulla pagina in una manicale ricerca di corrispondenze tra gli oggetti e la loro nominazione, tra la finitezza dei mezzi linguistici e la rincorsa alla infinità dei loro usi possibili.

Nella sua casa di Bloomington aveva dipinto di nero le pareti della stanza adibita a studio, e in quella camera oscura aveva piazzato un certo numero di lampade perlopiù provenienti dalla casa dei suoi genitori. Sul pavimento, giocattoli mangiucchiati dai cani, alle pareti le lettere di DeLillo, suo consulente letterario fin dagli esordi, e di Franzen, l’amico non immune dalla sua competitività, mentre a coprire il computer aveva steso un bel velo da sposa, dono di una amica. In quell’ambiente surreale si era dedicato alle defatiganti revisioni di Infinte Jest, il romanzo che aveva cominciato a concepire forse già nell’86 in forma di racconto e che condensa i suoi tre periodi stilistici, che D.T. Max così riassume: quello affidato a una voce narrante comica e brillante, corrispondente agli anni degli studi a Amherst; la parentesi della infatuazione postmodernista che aveva coinciso con il soggiorno in Arizona, e la fase bostoniana del dottorato a Harvard, che inaugurava una scrittura più emancipata da connotazioni ambigue e da doppi sensi. Ma quello che Wallace avrebbe definito un Intrattenimento fallito venne ancora ampliato a Syracuse e finalmente consegnato nel giugno del 1994, quando nonostante le dispute con il suo editor constava di circa 750.000 parole, ossia 1200 pagine e centinaia di note.

Due occasioni significative di scrittura allonanarono momentaneamente Wallace dal concepimento, prima, e dalla revisione, poi, di quella superfetazione romanzesca: la prima fu a Yaddo, la colonia per artisti vicina a Saratoga Springs dove fu ospite in due occasioni e dove si dedicò a un racconto da lui molto amato (e altrettanto detestato da Franzen che non esitò a scriverglielo): titolato «Verso Occidente», è concepito minuziosamente per rifare il verso a un racconto di John Barth nel quale Wallace credeva di leggere «una chiamata alle armi della metafiction postomoderna». Il secondo allontanamento dal dattiloscritto, ormai quasi terminato, di Infinite Jest si consumò nel marzo del 1995, quando Harper’s commissionò a Foster Wallace il reportage di una crociera nei Caraibi, che venne riversato in un racconto esilarante titolato Una cosa divertente che non farò mai più. Anche in questo caso scrisse circa tre volte quanto ci si aspettava da lui.

La sua vocazione alla prolissità, del resto, era remota quanto la sua sofferenza mentale – «mia sorella dice che ho il mal di vita» – avrebbe poi scritto in un reportage; e già da quando frequentava le lezioni a Amherst provava a fare fessi i professori comprimendo in una pagina il doppio delle righe previste. Alle proposte di editing che seguirono l’invio del suo primo romanzo fluviale, La scopa del sistema, Foster Wallace rispose con una ormai celebre lettera di diciassette pagine dove si giustificava ribandendo come tutto il libro andasse inteso come «una conversazione tra Wittgenstein e Derrida». Effettivamente, come nota D.T. Max, mentre Pynchon era la musa letteraria del giovane Wallace – che attingeva da lui i nomi, la quieta paranoia del libro e la convinzione per cui l’America era già allora intossicata dai media – il filosofo che più informava la dialettica del suo esordio era l’amato Wittgenstein.

Quando La scopa fu pubblicato, nel gennaio del 1987, la Viking Penguin mandò a Wallace un conto di oltre trecento dollari per le modifiche apportate alle bozze già revisionate dai correttori. I commenti della critica furono alterni, mentre la autocoscienza di Wallace circa la sua cerebralità si condensarono in una frase che è riportata nella intervista a David Lipsky pubblicata da Minimum fax sotto il titolo Come diventare se stessi: «le parti di me che pensavano fossi diverso, più intelligente o quello che era, mi hanno quasi portato alla morte».

Erano gli anni in cui si andavano affermando Bret Easton Ellis, Jay McInerney, Tama Janowitz, William T. Vollman: Wallace disapprovava e in molti casi invidiava, ma soprattutto era rabbiosamente competitivo con loro come con tutti quelli che avevano successo. Restìo a confessare l’influenza che autori molto ammirati avevano avuto su di lui, arrivò persino a negare di avere mai letto L’incanto di Pynchon, un libro che i suoi compagni di università, e in particolare l’amico Mark Costello, gli videro divorare.

Davanti agli studenti dei vari corsi di scrittura creativa nei quali insegnò, studenti che sbalordiva con la sua dedizione e con un misto di informalità e di intransigenza, Wallace affermava con un pathos senza possibilità di contestazione che la teoria era quanto distingueva i romanzieri di qualità da tutti gli altri, e che senza di essa non ci si poteva aspettare di diventare altro che meri intrattenitori. Del resto, la formazione di Wallace era tra le più solide: aveva frequentato prestigiosi college privati e nel suo background è affissa l’istantanea dei genitori a letto, mano nella mano, intenti a leggersi vicendevolmente l’Ulisse. Niene di strano dunque, nel fatto che per Wallace la vita fosse una continua performance. Tanto più pesanti da tollerare dovettero essere dunque le sottomissioni alla ferocia della sua sofferenza mentale, che più volte tornò a strapparlo ai successi scolastici, alla professione di insegnante, alla sua scrittura, alla possibilità di godersi gli affetti che, spesso, trovava nelle comunità di recupero per tossici e per alcolizzati, comunità che costituivano punti di riferimento tutt’altro che sgraditi dovunque egli si trovasse a abitare.

E nonostante l’illuminismo dei suoi genitori, e gli strumenti invidiabili in suo possesso, per due volte a distanza di anni Foster Wallace si ritrovò a tal punto vinto dal dolore mentale da soggiacere a una serie di sedute di elettroschock, dalle quali «riemergeva fragile come un bambino». Cercò più volte di contrastare la sua disperazione, a volte rasentando l’autolesionismo più estremo. Nel suo ultimo anno di vita provò a emanciparsi dai farmaci e poco prima di morire tornò precipitosamente a riprenderli; ma non aveva ormai più la resistenza necessaria per attendere che facessero effetto. Così, il 12 settembre del 2008 si impiccò nel garage della sua casa, e lasciò in vista per sua moglie Karen una lettera di addio di due pagine e un manoscritto di quasi duecento, la sua ultima performance romanzesca nella quale si era riproposto di indagare la noia fin nei recessi più remoti dei suoi fondamenti neurologici.

Molta parte della vita di Foster Wallace non è stata coerente con l’epilogo che si è scelto: la sua passione per lo studio, la sua curiosità, la sua partecipata traslazione di ogni infinitesimale dettaglio nella scrittura, la sua affettività, la sua ironia non necessariamente amara, e la sua brillantezza non solo votata al sarcasmo. Quanto al talento – la qualità che venne insistentemente associata al suo nome fin dagli anni dell’università, quell’aggettivo che suonava così inscindibile dal suo nome da suonare quasi come un patronimico –– questo non ha mai costituito un deterrente per nessun aspirante suicida.