Il National Institutes of Health (Nih), il principale istituto di ricerca pubblico statunitense in campo sanitario, sta decidendo se aprire una causa legale contro l’azienda farmaceutica Moderna. Al centro dello scontro, secondo quanto riporta il New York Times, c’è la proprietà intellettuale sul vaccino anti-Covid a mRna. Il Nih ritiene che tre suoi ricercatori, John Mascola, Barney Graham e Kizzmekia Corbett, abbiano dato contributi decisivi allo sviluppo del vaccino, soprattutto nell’identificare la proteina e il suo codice genetico che sono al cuore del funzionamento del vaccino. Invece, nella richiesta di brevetto presentata da Moderna il contributo del Nih non viene menzionato.

Se il contributo dei ricercatori pubblici fosse riconosciuto, il governo Usa acquisirebbe un ruolo potenzialmente decisivo. L’azienda è stata fortemente criticata per aver fissato un prezzo del vaccino eccessivo per i paesi a basso reddito. Il governo potrebbe invece assegnare il brevetto in licenza ad altri produttori, mentre Moderna ha preferito fare affidamento solo sulla propria limitata capacità produttiva. In realtà, riconoscere un ruolo alla ricerca pubblica avrebbe uno scarso effetto, perché produrre il vaccino richiede altri fattori oltre al brevetto. Come ha spiegato l’esperto di proprietà intellettuale Jacob Sherkow al New York Times, «la licenza non costruisce nuovi stabilimenti, non fornisce le materie prime, non forma il personale». La stessa Moderna ha affermato spesso di non voler far valere il brevetto contro eventuali imitatori non autorizzati.

È paradossale, tuttavia, che per riconoscere il contributo pubblico a un vaccino sia necessaria una disputa legale. Basterebbe infatti leggere i bilanci: il governo Usa ha garantito all’azienda 1,8 miliardi di dollari per lo sviluppo e la ricerca, più 8,1 miliardi per l’acquisto anticipato di centinaia di milioni di dosi cancellando ogni rischio d’impresa. Ulteriori ingentissimi investimenti sono arrivati dall’Ue. Anche gli altri vaccini «privati» hanno beneficiato di aiuti pubblici decisivi, senza i quali uno sviluppo così rapido sarebbe stato impossibile.

La vicenda dimostra piuttosto l’inadeguatezza del sistema dei brevetti come stimolo all’innovazione. Il brevetto non rispecchia il reale contributo dei ricercatori e, per ammissione della stessa azienda, non è nemmeno il fattore decisivo per controllarne la distribuzione.
Al contrario, il brevetto si dimostra cruciale per impedire l’accesso ad altri farmaci che invece potrebbero essere riprodotti facilmente, come i nuovissimi antivirali efficaci contro il Covid-19. A differenza dei complicati vaccini genetici, per le pillole antivirali basta la formula chimica e poco altro per produrre il farmaco generico a basso costo. Nelle ultime settimane, sia la Merck che la Pfizer hanno annunciato di averne messi a punto due in grado di prevenire i sintomi peggiori del Covid-19, se assunti nelle primissime fasi della malattia. Molnupiravir (Merck) e Paxlovid (Pfizer) hanno dimostrato in trial clinici di piccole dimensioni un’efficacia rispettivamente del 50% e dell’89%.

L’azienda farmaceutica Merck sembra aver imparato la lezione almeno sul piano dell’immagine. Il suo molnupiravir, in via di approvazione negli Usa e in Europa e sviluppato originariamente per altre malattie, sarà venduto a 700 dollari a trattamento nei paesi ricchi. Ma l’azienda ha messo il farmaco a disposizione di molti paesi poveri attraverso il Medicine Patent Pool, una banca dati contenente i farmaci con brevetto gratuito gestita dall’Onu. Al pool possono attingere 150 paesi a basso e medio reddito per produrre farmaci contro Hiv, epatite C, tubercolosi e Covid-19. Il direttore Charles Gore sta discutendo con la Pfizer affinché anche il Paxlovid vi sia inserito. «Sarebbero relativamente economici da produrre» dice Gore. «Per gran parte dei paesi che non hanno accesso ai vaccini sarebbe davvero una benedizione».

Nemmeno liberalizzare il brevetto sugli antivirali è sufficiente. L’efficacia degli antivirali richiede una diagnosi precoce del Covid che non è garantita ovunque. Nell’ultima versione del piano strategico del programma ACT – Accesso alle tecnologie contro il Covid-19 – dell’Oms presentata il 28 ottobre, il capitolo dei test diagnostici è quello che reclama il maggiore investimento: l’Oms chiede 7 miliardi di dollari in 12 mesi, come per i vaccini e ben più che per i farmaci. «Su oltre 3 miliardi di test, solo lo 0,4% è stato effettuato nei paesi a basso reddito» sottolinea l’Oms. «In quelli a medio reddito non va molto meglio, con tassi che vanno dall’1% al 10% rispetto a quelli che si registrano nei paesi ricchi. Mancano i finanziamenti, l’accesso ai test e le infrastrutture».

Per questo al Wto la proposta degli Usa di liberalizzare i brevetti solo sui vaccini, salutata da grande apprezzamento internazionale per Biden, non ha fatto avanzare di un passo i negoziati: India, Sudafrica e altri cento Paesi chiedono di sospendere tutti i titoli di proprietà intellettuale (brevetti, copyright e marchi) su vaccini, farmaci e test diagnostici. Una moratoria à la carte lascerebbe intatti i colli di bottiglia che finora hanno frenato la lotta al Covid nei paesi a basso reddito. Da oltre un anno il Wto è in stallo, con l’Ue a rappresentare l’opposizione più dura alla moratoria. L’occasione per cambiare idea c’è: i negoziati a Ginevra riprendono lunedì 15 novembre.