Tutto comincia negli anni Settanta, quando durante i lavori per ricostruire il centro sportivo cittadino una delle ruspe cozza contro strane scatole di ferro arrugginite da cui sbucano pezzi di vecchie pellicole. Nitrato d’argento sepolto chissà da quanti anni sotto terra sul quale erano impresse chissà quali storie. Siamo a Dawson City,Yukon, formalmente in Canada anche se la storia che racconta questa cittadina, oggi con poco più di un migliaio di abitanti, è tutta americana. Abitata da nativi con un’economia di caccia e di pesca, alla fine dell’Ottocento era diventata la meta più ambita della corsa all’oro. Non appena si seppe che nelle acque del Klondike si trovavano le preziose pagliuzze arrivarono in migliaia (le stime dicono oltre centomila persone) trasformando Dawson City dal nulla in una città di minatori. Era il 1896, lo stesso anno in cui dall’altra parte del mondo, i fratelli Lumière proiettavano per la prima volta le loro immagini in movimento: un treno che arrivava alla Ciotat, operai che escono dalla fabbrica – ma negli abiti della festa.

Questa «coincidenza» coi suoi scarti è l’origine di Dawson City- Il tempo tra i ghiacci, il film di Bill Morrison presentato negli ultimi Orizzonti veneziani che esce con la distribuzione della Cineteca di Bologna (per date e sale: www.cinetecadibologna.it) che dedicherà al regista una personale nella prossima edizione di Il Cinema ritrovato (24 giugno-1 luglio). E non solo perché Morrison ripercorre la storia della città attraverso le centinaia di film, testimonianze preziose dell’epoca del muto tra gli anni Dieci e Venti.
La parabola di Dawson City così come la raccontano i frammenti di pellicole a cui si aggiungono altri materiali, i cinegiornali Universal e Pathé, e prima ancora le lastre fotografiche di chi partì per documentare la «febbre dell’oro» ci narra anche quella del cinema americano e della sua industria, di Hollywood e dei suoi protagonisti interrogando l’immaginario, i suoi miti, le sue frontiere: un’archelogia del cinema in cui si riflette la nascita della nazione moderna.                                                                                                                                                                          

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Lì, in un luogo divenuto leggenda, in cui si avventurerà anche l’omino Charlot con uno dei suoi film più noti (The Gold Rush, 1925) fondano il loro potere i grandi capitali americani, dai Rockfeller ai Trump, la cui fortuna inizia proprio a Whitehorse, dove Fred Trump apre un bordello, il Whithehorse Arctic. E mentre le concessioni si concentrano nelle mani di pochi i minatori vengono sfruttati: quel mondo materia di tanti racconti, di tanto immaginario è violenza, miseria, morte. Su centomila persone ne torneranno indietro con qualcosa trentamila, ma questo è il capitalismo di cui Dawson City è un laboratorio avanzato. Casinò, sale da ballo, bordelli, la gente vuole divertirsi, tutto va in fretta, finito l’oro si va altrove lasciando solo devastazione.

E il cinema? A Dawson City passano alcuni dei suoi protagonisti: Fatty Arbuckle William Desmond Taylor ma anche Jack London o Robert Service. I film si proiettano al Grand Palace e poi nella sala della Dawson Amateur Athletic Association ma i costi per rispedirli indietro sono troppo alti così finiscono negli scantinati della Canadian Bank, e quando diventano troppi decidono di sotterrarli nella piscina coperta su cui si gioca a hockey.
La narrazione scandita dalla musica di Alex Somers, sintonizzata magicamente col progetto, procede in modo cronologico. Morrison produce accostamenti rimanendo sempre negli archivi, non ci sono voci off né interviste a parte a coloro che hanno lavorato al ritrovamento delle pellicole. La storia è nelle immagini, le permea e le contraddice sulla linea mobile tra la narrazione dei fatti e la loro realtà. Cosa c’è dietro all’ orizzonte di quell’immaginario, dietro ai buoni e ai cattivi, agli «indiani e ai cowboy», agli eroi di un’epica divenuta fondante?

Nei ghiacci e nel fuoco degli incendi che divampano spesso a Dawson City, le sue case di legno sono deperibili come è deperibile la pellicola (e come è labile la sola memoria) – Flaherty perse molte parti di Nanook in un incendio – appaiono i grandi magnati hollywoodiani come Alexander Pantages e i poveracci. I nativi vengono emarginati, i minatori massacrati, gli wobblies dell’IWW, il sindacato indipendente, combattono le loro battaglie confinati fuori dalla Storia ufficiale e cacciati lontano, sbattuti in galera, uccisi. L’archivio restituisce i processi e la deportazione dell’anarchica e femminista Emma Goldman ma anche dell’incendio alla Solax Film Lab, la casa di produzione di Alice Guy Blanché la pioniera delle registe.

Le immagini si susseguono, fino alla prima guerra mondiale, alla Depressione: il muto lascia il posto al sonoro, le vecchie pellicole si gettano via, i ragazzini si divertono a dargli fuoco.
City of Gold o City of Dreams, ma il sogno è finito anche se il suo romanzo lo ha reso eroico, strabiliante, fantastico. Le immagini, nel lavoro paziente dell’archivista Morrison ritrovano i loro significati i meno visibili e raccontano altre storie: un respiro grandioso che al di là del mito arriva fino al presente.