Come si spiega che il più influente e prolifico critico letterario dell’Ottocento non abbia mai scritto un saggio né un articolo su quello che viene riconosciuto come il più grande poeta della modernità? Nonostante l’amicizia più volte dichiarata, Sainte-Beuve ha dedicato soltanto delle brevi note a Baudelaire, che lo aveva più volte implorato di un riconoscimento pubblico. Il mistero che avvolge questo imbarazzante silenzio ha interrogato critici e lettori, suscitando riprovazione e sdegno, a partire dalla reazione più celebre: quella di Proust in un testo poi confluito nel postumo Contre Sainte-Beuve.

Proprio con questo saggio si apre la silloge Voi avete preso l’inferno Lettere e scritti (1844-1869), curata da Massimo Carloni (Nino Aragno editore, pp. 179, € 15,00), che ha il grande merito di proporre una esaustiva ricostruzione della delicata e cruciale vicenda, riunendo per la prima volta in volume tutti i tasselli del mosaico finora dispersi in vari sedi: non solo il carteggio tra il critico e il poeta, ma anche lo scambio epistolare con altri personaggi a loro molto vicini: Jules Troubat, il segretario di Sainte-Beuve, Auguste Poulet-Malassis, l’editore di Baudelaire, e la madre del poeta, Mme Aupick; mentre nella sezione «Addenda» sono raccolti vari documenti e articoli, tutti ovviamente relativi all’enigmatico sodalizio umano e letterario.
L’interesse suscitato da questa disattenzione di Sainte-Beuve va certo oltre la curiosità per una deplorevole negligenza sul piano umano e impone piuttosto una riflessione sulla funzione e sul valore della critica, sul complesso rapporto tra uomo e opera. Il coinvolgimento esistenziale implicito nell’amicizia avrebbe dunque impedito al critico di riconoscere il genio poetico? E perché – invertendo i termini – un grandissimo e lucido poeta come Baudelaire avrebbe ricercato con insistenza l’approvazione ufficiale di un critico affermato sia in campo culturale che sociale?

Varie lettere testimoniano come Baudelaire venerasse tanto l’uomo (di fronte a lui si sentiva «come un amante») quanto lo scrittore e il critico: «E adesso dovrò, proprio io, l’innamorato incorreggibile dei Rayons jaunes e di Volupté, del Sainte-Beuve poeta e romanziere, complimentare il giornalista?» (lettera del 24 gennaio 1862). L’ammirazione di Baudeliare si spinge addirittura fino a riconoscere in Sainte-Beuve un maestro: «Joseph Delorme è un anticipo delle Fleurs du mal» (lettera del 15 marzo 1865).

Tuttavia, tanta devozione non sarebbe valsa neanche un aperto sostegno in occasione del processo subito da Baudelaire per oltraggio alla morale dopo la pubblicazione del suo capolavoro: pavidamente Sainte-Beuve fornì all’avvocato soltanto alcune note anonime ritenute utili per l’udienza (Piccoli mezzi di difesa così come li intendo io). A parte cauti apprezzamenti epistolari, gli unici accenni pubblici del critico al poeta appaiono in un articolo dedicato ai candidati all’Accademia di Francia nel 1862, tra i quali figura Baudelaire (Sulle prossime elezioni dell’Accademia). Qui, in poche righe, la sua opera viene semplicemente presentata come «un chiosco bizzarro, assai ornato e ricercato, ma civettuolo e misterioso». Sono parole che suscitarono l’indignazione di Proust, il quale trovava «sbalorditivi» i termini usati per presentare un poeta come Baudelaire: «candidato garbato, rispettoso, esemplare, un ragazzo gentile».

Lo sdegno di Proust ha una spiegazione di natura estetica. Sainte-Beuve non capiva Baudelaire perché il suo metodo critico era viziato dal legame che stabiliva tra l’uomo e l’artista: intendeva comprendere l’opera a partire dalla biografia, questo il problema. Proust – che superò il determinismo ottocentesco schiudendo le porte al Novecento – distingueva nettamente l’«io creatore» dall’«io biografico» e per questo stesso motivo deresponsabilizzò Baudelaire minimizzando la sua inspiegabile attrazione verso il critico e i suoi deferenti ringraziamenti: «l’uomo che vive nello stesso corpo con un grande genio ha poco a che fare con questo, ma è proprio quello che i suoi intimi conoscono, e così, è assurdo giudicare, come fa Sainte-Beuve, il poeta attraverso l’uomo o tramite le dichiarazioni dei suoi amici. Quanto all’uomo stesso, egli è solo un uomo, e può perfettamente ignorare quel che vuole il poeta che vive in lui».

Certamente l’interpretazione di Proust, per quanto geniale, è rivolta più a sostenere l’elaborazione di una nuova estetica che a darci lumi sulle esitazioni di Sainte-Beuve. Si può allora senz’altro concordare con il curatore del volume che, nell’interessante saggio conclusivo, Anatomia di un’incomprensione, individua l’errore del critico nel presentare Baudelaire come epigono bizzarro di una scuola letteraria, quella romantica, e non come precursore della modernità. Ma forse l’errore non è solo di comprensione. Lo stesso Proust induce a riflettere ulteriormente sulla questione riconoscendo che Sainte-Beuve «grazie alla sua meravigliosa intelligenza, è uno di quelli che l’hanno compreso meglio». Proprio nella metafora che lo aveva tanto indignato si può leggere in filigrana il riconoscimento di un erede da parte di Sainte-Beuve: «Baudelaire ha trovato il modo di costruirsi, all’estremità di una lingua di terra ritenuta inabitabile e oltre i confini del romanticismo conosciuto, un chiosco bizzarro» situato «alla punta estrema del Kamchatka romantico». Espressioni come «estremità», «oltre i confini», «alla punta estrema» rivelano in realtà una timida e implicita ammissione del ruolo di pioniere assunto da Baudelaire, che si avventurava allora in territori ignoti e assai impervi. Temi adombrati da Sainte-Beuve nella sua prima raccolta poetica, quali il lirismo messo in crisi dall’ironia e la modernità intesa come frattura insanabile del soggetto, avrebbero infatti trovato una piena espressione solo con Baudelaire.

Si potrebbe allora ipotizzare una relazione problematica con il proprio doppio, con ciò che Sainte-Beuve sarebbe potuto essere se una calcolata prudenza e una mancanza di coraggio (e di genio) non l’avessero impedito. Non è un caso che il critico avesse consigliato a Baudelaire di adeguarsi a un più mite conformismo: «non temete di sentire come gli altri, non abbiate paura di essere troppo comune» (lettera del 20 luglio 1957). Naturalmente, il poeta non seguì affatto l’invito di colui che pure reclamava come maestro. Baudelaire volle ripetere, radicalizzandola, l’esperienza della prima raccolta poetica di Sainte-Beuve: volle dar vita a «un nuovo Joseph Delorme, che allaccia il suo pensiero rapsodico a questo o a quell’episodio del suo girovagare, traendo da ogni oggetto una morale sgradevole», e non esita invece a condannare quanto di stucchevolmente accademico vi era in quella raccolta: «un po’ troppi liuti, lire, arpe e Geova. Sono cose che stridono in queste poesie parigine» (lettera del 15 gennaio 1966).
La rilettura di tutti gli atti del dramma e quindi l’ascolto delle testimonianze di tutte le dramatis personae, grazie all’esaustiva ricostruzione del volume, permettono uno sguardo critico in grado di comprendere perché quel poco che Sainte-Beuve ha detto di lui, a Baudelaire sembrava moltissimo.