La letteratura americana sui conflitti in Iraq e in Afghanistan è andata assumendo, negli ultimi anni, contorni abbastanza precisi (si può leggere, in proposito, l’ultimo numero della rivista Ácoma, www.acoma.it, dedicato alle «guerre del nuovo millennio») pur essendo ancora presto per parlare della formazione di un canone. Nella fase iniziale sono stati soprattutto i memoir a fornire una prospettiva personale alternativa ai bollettini dell’esercito, assieme ai resoconti di reporter inevitabilmente embedded ma capaci di spingersi oltre la semplice cronaca. Solo più di recente narratori e romanzieri come Phil Klay con Fine missione, Kevin Powers in Yellow Birds e Matthew Gallagher nel suo Youngblood hanno provato a riflettere su cosa, nel concreto, abbia significato la cosiddetta «guerra al terrore».

Ai racconti di questi soldati divenuti scrittori, in linea con una tradizione centenaria, si affiancano le narrazioni di chi alla guerra non ha partecipato in prima persona: Ben Fountain, autore di È il tuo giorno Billy Lynn o Helen Benedict con Sand Queen, che non sono ex combattenti ma riescono a cogliere risvolti che spesso sfuggono alla prospettiva del reduce, abbagliato in modo più o meno consapevole da quello che Roy Scranton ha chiamato il «mito dell’eroe traumatizzato».

Il romanzo di Derek B. Miller, La ragazza in verde (tradotto in modo scorrevole e senza sbavature da Raffaella Vitangeli, Neri Pozza, pp. 410, € 18,00) è in una posizione eccentrica rispetto a questi generi: non solo perché Miller, pur non essendo un ex militare conosce da vicino il mondo che descrive, ma per la sua focalizzazione temporale. Se l’antefatto è ambientato negli ultimi giorni della Prima Guerra del Golfo, gran parte del romanzo si svolge ventidue anni più tardi, quando ufficialmente la guerra americana in Iraq è finita ma non prima di aver dato fiato ai mille conflitti della regione tra sunniti, kurdi e sciiti, portando alla nascita dell’Isis e alla disintegrazione dell’Iraq e della Siria.

Come racconta lo stesso autore in una breve nota conclusiva, il romanzo si basa sulla sua tesi di dottorato in relazioni internazionali e questo spiega non solo l’abilità nel guidare il lettore attraverso il caos medio-orientale, ma la familiarità con i mondi ai margini dei conflitti: quello delle Ong e delle agenzie internazionali di soccorso, quello dei giornalisti disposti a rischiare pur di trovare una storia che valga la pena di essere raccontata, quello dei profughi, con le loro sofferenze. Queste masse sradicate, come ci ricorda Miller, riguardano non solo il presente, ma il futuro della regione: saranno loro, i milioni di esiliati e sradicati, svezzati a suon di bombe ed esecuzioni di massa, a dover immaginare e costruire un domani per sé e i propri figli.

Miller, che ha esordito come scrittore nel 2013 con il crime novel Uno strano luogo per morire (Neri Pozza) accolto con entusiasmo dalla critica, riesce nella non facile impresa di conciliare il desiderio di informare il lettore sulle dinamiche della crisi regionale con la costruzione di un thriller dotato di una scrittura agile e mai banale, popolato di personaggi interessanti. La vicenda ruota attorno al tema della colpa e del riscatto, che in questo caso convive con un desiderio di vendetta destinato a gettare un’ombra sulle più nobili intenzioni dell’ex soldato americano Arwood Hobbes, ossessionato, al pari dell’amico Thomas Benton (un giornalista britannico), dal ricordo di non essere riuscito a salvare una bambina irachena (la ragazza in verde del titolo) durante un attacco sul confine tra la zona occupata nel 1991 dagli americani e quella sotto il controllo di Baghdad.

Ventidue anni più tardi Arwood, divenuto nel frattempo commerciante d’armi, vede in tv il filmato di un attacco a un campo profughi tra i quali nota un’altra ragazza vestita di verde e si convince che lui e Benton debbano tornare laggiù per salvarla, come se quella fosse la bambina cresciuta che si lasciarono indietro due decenni prima. Con l’aiuto di una funzionaria svedese dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati , Märta Ström, conosciuta all’epoca della Prima guerra del Golfo, Arwood e Benton cercheranno di portare a termini un’impresa che, sebbene narrata con i tempi del racconto d’azione, si carica di implicazioni simboliche. Ha senso sognare (come Jay Gatsby) di ripetere il passato? Perché, di fronte alla morte quotidiana di migliaia di persone, intestardirsi a salvarne una in particolare? E questa operazione «umanitaria», in che misura sfugge alla logica della guerra?

Miller, che dirige da alcuni anni il Policy Lab e collabora con l’istituto per il disarmo dell’Onu, è consapevole del labile confine tra pace e guerra, e memore della lezione di Joseph Heller non dimentica quanta assurdità si nasconda nelle tragedie più fosche: sia nel linguaggio che le descrive – «a volte la nostra umanità interferisce con il nostro umanitarismo» – sia riguardo a mille azioni quotidiane, per esempio l’operazione «Provide Comfort» dell’aviazione americana, che si risolse nel lanciare aiuti non ai ma sui rifugiati, bombardandoli di polli surgelati e provocando la morte di dozzine di persone. Sebbene sappia che troppo spesso i nostri tentativi di soccorso producono risultati grotteschi, al senso d’impotenza che pure attraversa tutto il romanzo Miller preferisce l’idealismo dei suoi protagonisti, impegnati a salvare gli altri forse anche (o soprattutto?) per salvare sé stessi.