In un articolo apparso sul «New York Times» del 6 giugno, Jim Rutenberg suggeriva che, invece di riferirsi al team elettorale di Donald Trump come a «la campagna Trump», sarebbe stato meglio chiamarlo Trump Productions Inc.. In effetti, come lo studio di un immaginario produttore indipendente che non si ferma davanti all’espediente più basso per far pubblico (pensate al Lawrence Woosley di Matinè di Joe Dante), dall’annuncio della sua candidatura a oggi, Trump è riuscito a creare e diffondere con grande successo di audience una quantità enorme di contenuti a costi che a malapena scalfiscono il suo conto in banca.Insulti, dichiarazioni «scandalose» (dopo il giudice messicano «non in grado di essere imparziale perché ’ io voglio costruire il muro con il Messico’ è la volta di un giudice musulmano a non essere idoneo per pronunciarsi sull’aspirante presidente), guerre personali (come quella con la giornalista di Fox News Megyn Kelly, ora conclusasi con un happy ending), sono la materia prima del palinsesto trumpiano, un’infernale macchina di entertainment che, finora, l’establishment mediatico non è stato in grado di controllare, ma da cui quello stesso establishment ha tratto frutti: rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, nei primi quattro mesi del 2016, i costi della pubblicità di prima serata su CNN sono aumentati del 45 percento, del 23 percento su MSNBC.

Che lo trattino come un buffone (come incautamente facevano lo scorso autunno) o che lo prendano sul serio (come stanno cercando di fare adesso, rispondendo alle sue dichiarazioni più insensate con i dati alla mano), nella fase delle primarie, i media Usa sono entrati in un rapporto di pericolosa co-dipendenza con Trump, della cui capacità di mattatore sono allo stesso tempo, inorriditi e entusiasti. È una co-dipendenza che Obama ha aspramente criticato in più occasioni, a partire da marzo, subito dopo un plateale esame di coscienza firmato da Bill Kristol, uno degli editorialisti più seguiti del «N«ew York Times».

«Donald Trump fa notizia e domina i ratings. È invariabilmente interessante – come la 500 miglia di Indianapolis. Non sai mai cosa sta per succedere. E, da un minuto all’altro, potrebbe esserci un incidente», ha dichiarato al NYTimes Kathleen Hall Jamieson, direttore dell’Annenberg Public Policy Center dell’Università delle Pennsylvania.

Dall’inizio dell’anno alla fine di aprile, i network ABC, CBS e NBC hanno dedicato alla primarie repubblicane il doppio del tempo di quello dedicato a quelle democratiche, con 425 minuti su Donald Trump e 117 su Hillary Clinton. Nell’arco di quattro settimane tra marzo e aprile, CNN ha dedicato 773 minuti alla corsa elettorale repubblicana, 214 a quella democratica – con 331 su Trump e 110 su Hillary Clinton. Lo squilibrio è tale che alcuni impiegati di CNN avrebbero espresso preoccupazione ai direttori della rete, ma per ora la policy è rimasta invariata.

A confronto con il presenzialismo mediatico ossessivo del miliardario newyorkese, che scrive i propri twitter e, quando gli gira, chiama personalmente lo studio dei programmi tv per promuovere una storia o un punto di vista, la diffidenza storica con cui Hillary Clinton si rapporta ai giornalisti è ancora più evidente. Difficile biasimarla, visto il trattamento riservatole dai tempi in cui era First lady (dalla fallita riforma sanitaria, alle sue pettinature a tutte le inchieste da cui non è mai uscito nulla, inclusa, oggi, quella su Bengasi), ma è una diffidenza di cui la sua campagna sta pagando le conseguenze.

Un esempio: il 23 maggio, nessuno dei canali all news ha mandato in onda il discorso che Hillary Clinton ha fatto a Las Vegas, e che ha incluso duri attacchi a Donald Trump, preferendo invece puntare le telecamere su un podio vuoto del Nord Dakota, dove era atteso Trump. La stessa discrepanza si è verificata quando, qualche settimana prima le reti cavo hanno trasmesso nella sua interezza il discorso di Trump alla National Rifle Association, ma nemmeno una parte di quello ai sindacati che Hillary ha fatto qualche giorno dopo a Detroit.

È impossibile immaginare che Hillary Clinton indica una conferenza stampa come quella che Trump ha organizzato per se stesso, la settimana scorsa, per rispondere a dei reportage giornalistici che chiedevano conto di dove erano finite le donazioni promesse ai veterani di guerra l’inverno scorso (durante un evento a sua volta inventato per fare ombra a un dibattito presidenziale cui aveva rifiutato di partecipare). In 40 minuti di incredibile televisione, per la visibile delizia di persone come il signore che, vicino a me, stava aspettando che il meccanico gli restituisse l’auto, Trump ha furiosamente assalito i giornalisti, presenti e non, chiamandoli «incredibilmente disonesti» o «sordidi» in un’ anticipazione – ha specificato- di quello che sarà il trattamento riservato alla press room della sua Casa bianca. Perché la love story tra Trump e i media ha anche degli aspetti sadomasochisti. E, almeno per ora, è chiaro chi tiene in mano il frustino.