«Le Sicilie sono tante, non finirò di contarle. Vi è la Sicilia verde del carrubbo, quella bianca delle saline, quella gialla dello zolfo, quella bionda del miele, quella purpurea della lava», scriveva Gesualdo Bufalino, e poi c’è quella nera raccontata magistralmente dai versi ruvidi di Fernando Lena, che in Black Sicily (Arcipelago Itaca, pp. 76, euro 13) mette in scena l’anima più dolente dell’isola, soffermandosi sui suoi contrasti, le sue contraddizioni, le sue zone più oscure, i suoi luoghi marginali popolati da una schiera di esclusi, che si muovono tra «disperazione e incanto».

LA VOCE DI LENA incarna un coro di esistenze segnate dalla violenza del «sangue» (non a caso uno dei termini più ricorrenti), nel suo duplice significato di cieco principio vitale e gesto ferino che provoca morte, e restituisce loro la dignità negata, ne riscatta le traiettorie di vita guaste e spezzate, «affinché la carne dei perdenti diventi una ferita sanata di pace». Come una serie di fotogrammi espunti da una sceneggiatura che è per metà cronaca nera e per metà memoria biografica cesellata finemente, al punto da assumere la forma di un disadattamento, un disagio in cui è facile ritrovarsi, le poesie si dipanano al ritmo di spari, seghe elettriche, carri funebri, agguati, suicidi, vendette, esplosioni di tritolo, lutti insostenibili, aghi che avvelenano le vene usate «come un cappio», per poi all’improvviso allagarsi di quella luce epifanica che è il centro vitale di questa scrittura, la perfetta corrispondenza con «l’altro volto di una terra spietata».

Dopo aver incrociato i destini dei personaggi che popolano Black Sicily si ha l’impressione di aver compiuto un viaggio senza ritorno nelle ombre che seguono ognuna e ognuno di noi, in un territorio straniante e solitario, di cui l’isola diviene metafora. Sottotraccia fa da collante un canto di tenerezza misto a rimpianto, che attraversa tutta l’opera: una sorta di dialogo a distanza tra l’autore e la figura del proprio padre scomparso, che da un lato compone una sofferta genealogia dell’assenza, e dall’altro risuona dell’eco di tutte le morti su cui lo sguardo è inciampato.

UNO DEI TANTI PREGI di questa raccolta poetica è la scelta di un linguaggio concreto e autentico, che non vira mai al virtuosismo stilistico fine a sé stesso e non presta il fianco a giri di parole, prediligendo piuttosto la crudezza di certi vocaboli, il fitto richiamo agli odori, ai suoni, ai sapori, agli oggetti del quotidiano, alle atmosfere di un realismo dalla consistenza materica, una lingua appuntita, ma partecipe e a tratti clemente, che traduce in immagini nitide e indelebili quell’ambiguità di lutto e di luce dentro i cui confini si muove, restituendo a chi legge la verità senza filtri di un «mondo/ tenuto assieme dalle cicatrici», «con tutto il suo dolore velato/ e i suoi canditi di demoni e cristi», dove «anche il più piccolo delirio/ più raggiungere l’infinito».
Quella Sicilia brulicante di mare e di afflati lavici, in cui il riscatto è tutto nella «spiritualità della bellezza» di cui le poesie di Lena sono intrise.