Il contenitore culturale della Mole Vanvitelliana di Ancona è conosciuto dai locali come il Lazzaretto, il luogo sanitario di cura dalle pestilenze; ma è storicamente anche punto di sosta di merci e persone prima di rimettersi in cammino, difesa, forte peninsulare progettato da Vanvitelli nel 1732, e anche manifattura tabacchi.

LA SCELTA, dopo il sisma che ha colpito le Marche nel 2016, di convogliare qui opere provenienti dall’area del cratere sismico appare filologicamente corretta: questa è una dimensione adatta, e capiente, dove leccarsi le ferite e ricevere protezione, e dove mettere mano alle cose e rimetterle in piedi. Ascoli Piceno ed Amandola (Fermo), nel cuore della porzione di Marche più colpita, sono pure sede pubblica e operosa di ricovero e recupero dei beni nella prossimità di casa loro.
La Mole del capoluogo è spazio labirintico e metafisico che ha mostrato davvero la sua anima ospitando Calamita Cosmica di De Dominicis, scheletro immane come lo è questa costruzione con l’aria di cetaceo spiaggiato davanti all’Adriatico.
Ora una parte dei suoi locali sono stati allestiti come deposito concesso al Mic, dotato di specifici laboratori di pronto intervento per mettere subito in sicurezza le opere. Scelta appropriata dunque ma non subito piana per chi quei beni dai territori feriti, soprattutto del maceratese, ha dovuto lasciarli andare: 1.421 ne ospita la Mole.
Non sono opere di pregio artistico incommensurabile, è arte minore, gli illustri marchigiani, nativi o d’elezione, Raffaello Crivelli e Lotto non abitano qui e non hanno mai abitato lungo le sponde del Nera. Ma il valore sentimentale e identitario per i residenti di un borgo che ha visto venire giù case e chiese è fuori mercato e comprensibile la trepidazione nel doversene separare senza certezza sui tempi di recupero.

IL BOATO DEL SISMA ha fatto volare via esistenze e genii loci, come gli esseri umani terremotati anche le statue dei Santi e le campane, l’anima e la voce dei paesi sbriciolati, hanno dovuto lasciare la terra dove sono stati concepiti e hanno sempre vissuto, per ricoverarsi presso alberghi lungo la costa. E come i terrestri alcuni sono sfollati per aver perso casa, altri anche feriti e traumatizzati.
Nei locali adibiti a deposito della Mole la teoria di figure velate (San Sebastiano, San Rocco, Santo Stefano, Vergini e poveri Cristi) conferisce al luogo l’aria mistica, di tregua al dramma e di miracolo sospeso delle chiese il Venerdì santo; ci sono molti crocefissi impacchettati di fatto trasformati in aquiloni, cassette non troppo diverse da quelle del pesce del vicino mercato ittico contenenti i frammenti di affreschi raccolti con la minuziosa devozione di addetti ai lavori e volontari: umili etichette rubricano questi puzzle come «Profeta Davide», «Sibilla Ellespontica».
Immersi nel silenzio e nella luce rarefatta d’ospedale, evocata anche da lucernari processionali appoggiati su un fianco e candelabri spenti, ci sono anche porzioni di capitelli e colonne abbattute come tronchi di una foresta fossile, pale d’altare, tabernacoli. Si tratta perlopiù di beni ecclesiastici salve rare eccezioni come quella della tela che raffigura una ascensione del Tricolore.

DIECI DI QUESTE OPERE hanno lasciato il deposito per salire alla ribalta di Terra Sacra, a fare il controcanto a quelle degli autori contemporanei scelti da Flavio Arensi. Il pluriball e i veli dentro cui si è scelto di lasciare il Sacro Cuore di Gesù, la Santa di cartapesta in abiti scuri e il Bambinello che si perde il sesto Natale a Visso, sono i bendaggi di convalescenti, abbassati in alcuni casi a mostrare porzioni di pelle nuda e vulnerabile.
Quei teli così efficaci e poetici nell’allestimento anconetano sono il sudario che non si vuole abbandonare: Ecce Homo, si intitolava la mostra di Paladino che ha inaugurato nel 2016 una nuova stagione espositiva della Mole, questa si potrebbe chiamare «Ecce Personae», quelle in carne e ossa e i loro simulacri scultorei che devono tornare alla vita, cosa per cui talvolta è necessario l’ardire, diceva il marchigiano Volponi, di lasciare le nostre care piaghe guarire.