Alle origini della fortunata canzone francese, rinomata in tutto il pianeta, ci sono diversi tipi di ballate di fattura artigianale, più o meno popolari. Dalla metà dell’Ottocento troviamo da un lato i complaintes e le goulantes, le romances e il vaudeville, tutte con retaggi di musicalità urbana e contadina (complainte significa lamento, goulante canzone di gola, quindi legate a forme particolari di esecuzione, le altre derivano dalle romanze borghesi da salotto e gli ultimi sono canti satirici o conviviali), repertori affidati sia alla vendita di fogli volanti ( i petit-formats) che alle riproduzioni di organetti meccanici (orgues de Barbarie) dei suonatori ambulanti.

PRODOTTI poi indirizzati a una borghesia in crescita e classe operaia consapevole, provenienti abitualmente dai caveaux, circoli esclusivi dove ci si riuniva per cantare e dalle centinaia di goguettes, le società canore presenti nella periferia parigina, luoghi d’aggregazione delle classi subalterne, molto temute dalle forze dell’ordine per la produzione di canzoni d’ispirazione anarchica o socialista (se chiedete a un amico a bruciapelo qualche canzone francese di metà ottocento, dovete aspettarvi la Marsellaise, l’Internationale o Les temps des cherises, una canzone già esistente nel 1868 ma poi associata alla breve stagione della Comune di Parigi, quasi un inno dell’epoca, scritto da Jean Baptiste Clement e musicata da Antoine Renard, oggi un superclassico con centinaia d’interpretazioni, da Yves Montand a Marcel Mouloudji, da Tino Rossi a Juliette Gréco. Solo i più esperti citeranno Le Greviste, sugli scioperanti esplicitamente solidale o Le Canuts, sulla rivolta degli operai tessili- i Canut – di Lione).
Giovanni Vacca, nostro storico collaboratore, musicologo e docente universitario, ha una bruciante passione per gli chansonnier del XX secolo (che hanno influenzato anche i cantautori italiani) e ha voluto raccontare la genesi di questo processo di formazione della canzone transalpina verso la musica leggera moderna, i prodromi di quella sfavillante stagione del secondo dopoguerra con la sua capacità di insediarsi nella coscienza collettiva di intere generazioni.Nelle pagine la riscoperta di tanti personaggi parigini poco noti dalle nostre parti, eppure ispiratori di Brassens, Brel, Ferrè, Vian e tanti altri

Il frutto dei suoi studi è un libro Memorie della canzone francese (Lim, pag.130, euro 18), sottotitolo ‘nascita di un genere musicale (1848-1945)’ che riscopre tanti personaggi parigini, poco noti dalle nostre parti, eppure ispiratori di Brassens, Brel, Ferrè, Vian e tanti altri. Ad esempio Pierre-Jean de Beranger, un poeta di canzoni, abile versificatore in grado di costruire le sue centinaia di brani, su testi adattati alle vecchie arie, spesso circolanti in forma orale grazie ai cantanti di strada o Aristide Bruant, l’elegantone ritratto in copertina, superbo cantore della vita del sottoproletariato urbano, prostitute e galeotti, facchini e camerieri, conosciuti bene Dans la rue, il suo successo più noto, esplorando Parigi e la sua lingua di strada, l’argot, prima della nascita e del successo del café-chantant, contemporaneo alla fondazione nel 1851 della S. A. C. E. M. (la Societe des Auters, Compositeurs et Editeurs de Musique, la prima società al mondo a tutelare il diritto d’autore).
La stessa strabiliante Edith Piaf viene inquadrata nell’ambito della chanson realiste, quella delle scene dal vero, riflesso del naturalismo letterario che include figure poco conosciute in Italia come Fréhel e Damia.

MOLTO DOCUMENTATO (con un diluvio di riferimenti e informazioni) e di agevole lettura, il volume scorrevolmente cronologico si insinua tra Therese e Yvette Guilbert, Polin e Gaston Ouvrard, vedette del comique-troupier, concludendosi con i fuochi d’artificio di Charles Trenet, il gioviale cantautore che fa boum, con la suprema abilità di adattare la lingua francese alle melodie sincopate, alla rivoluzione swing dopo averci accompagnato tra terrazze e bal-musette, fabourg e cafè-tabac della musa per eccellenza dell’epoca, quella Parigi decantata da Maurice Chevalier e Mistinguett ma pure dall’elvetico Jean Villard, detto Gilles, autentico maestro della forma del teatro-canzone e del suo sodale Julien (al secolo Aman Maistre), poco conosciuti in Italia.
Tra analisi testuali delle canzoni (risalendo persino alla poesia di Richepin, citata e adattata da Fabrizio De Andrè) e smaglianti approfondimenti musicali, mettendo assieme accordéon e surrealismo, flaneur e music-hall, si finisce inevitabilmente per canticchiare, la frivola e rilassata Tout va trés bien, Madame la Marquise, di Paul Misraki del 1936, uno dei grandi successi dell’orchestra di Ray Ventura, ancora oggi di estrema attualità, tra disastri d’ogni genere.