Entrando nella biblioteca civica di Merano mi ha sorriso il volto di Rossana Rossanda in copertina del libro-intervista con Mariuccia Ciotta e Roberto Silvestri. Erano i primi di dicembre, era appena uscito, e già esposto bene in vista sugli scaffali nella hall di entrata con i volumi più importanti da segnalare. Fu immediata la mia decisione: lo prendo in prestito, subito. Per divorarlo, in una piacevole quasi ininterrotta lettura. Edito da Bompiani, Il film del secolo, comprende 314 pagine di dialogo tra la giornalista politica – per cui “la politica non è tutto”, come lei stessa sottolinea più volte – e i due critici cinematografici, per i quali il cinema è politico nel senso di “arte di cambiare il mondo” ossia “immaginario collettivo”. Suddiviso in 18 capitoli, dalle “dissolvenze incrociate” al “cinema che fa scuola”, passando per avanguardie, fotogrammi di piombo, Buster Keaton, divinità globali, miti giapponesi e omologazione del mercato, seguono tre articoli scritti dalla stessa Rossanda sul manifesto, qui raccolti sotto la voce “Al cinema con Rossana”(il primo dedicato a Sussurri e grida di Bergman che fu anche la prima recensione in assoluto apparsa nel 1973 sul foglio allora “tutto politico”, e che si apre con una interessante carrellata sulle ipotetiche percezioni da parte della critica – dicasi comunista – nei diversi periodi dal secondo dopoguerra in poi, prima di cantarne “l’uso emotivo, violento, delle sontuose immagini per scoprire per contrasto l’insopportabilità delle situazioni limite” e “l’impatto con l’irrazionalità della malattia e della morte”, aspetti che il movimento operaio rivoluzionario aveva messo tra parentesi; il secondo dell’82 parla di Reds di Warren Beatty, a proposito del quale si discute animatamente sulle pagine precedenti e il terzo del ’90 alle “femmes fatales” che si vogliono immortali sullo schermo, tema a cui è dedicato anche un intero capitolo), e infine due brevi postfazioni firmate da Ciotta e Silvestri per arrivare a 345 pagine totali. Sotto quali altri titoli, se non rispettivamente Fermo immagine e Fuori campo, i due potevano raccontare il divenire di questo “viaggio lungo i cento anni del lungometraggio” sotto forma di “opera aperta e non conciliante come un film mai finito, dove il flashback diventa il presente” e aiuta a ricomporre fili spezzati, anche personali, dei “militanti dell’impossibile” (Ciotta)?

Questo dialogo a tre mi risucchia dentro l’intrigante analisi dove il cinema riflette la storia e la storia il cinema, facendo riferimenti reciproci per reindagare certi passaggi storico-politici, singoli eventi, date (im)memorabili, ma anche movimenti culturali e/o personaggi, come ad esempio Pasolini e Fellini, per rimanere nell’ambito italiano, o la posizione di Eisenstein durante il regime di Stalin, o ancora la Cina di Mao, Cuba e Hollywood. Il punto di vista di Rossanda non sempre coincide con i due critici che per oltre trent’anni hanno scritto “indisciplinatamente” di cinema e politica culturale sulle pagine del giornale e del supplemento Alias, anzi, il suo sorge da un occhio critico-politico di attenta testimone attiva del suo tempo, qual era ed è tuttora. Del nostro tempo. Il suo vissuto. Mentre Ciotta e Silvestri snocciolano titoli di film che hanno avuto ognuno un proprio ruolo specifico, si parla di un’arte composta dal e nel tempo, che informa e mette in forma, riflettendoli, passato e presente (ormai passato) e crea nuove visioni e interpretazioni ogni volta che vede la luce di un proiettore.

Un libro da adottare nelle scuole per imparare a comparare le storie narrate nei film e la storia narrata – e non narrata – sulle pagine dei libri di testo, per imparare a creare connessioni tra finzione e realtà, tra eventi storici e la loro riflessione, elaborazione o previsione nelle arti, la filosofia e l’evoluzione tecnologica. Un libro che insegna ciò che generalmente non si insegna: pensare.

Prendo due capitoli a caso: “Sulla strada” e “Questioni di classe”. Vi si disputa di autori e film neorealisti, di reazioni del PCI, di come il neorealismo abbia avuto una sua importanza contenutistica per aver narrato il secondo dopoguerra italiano, ma soprattutto per aver “liberato” l’immagine dalle costrizioni in gabbie formaliste facendo scendere in strada per l’appunto troupe e attori, accogliendo non attori, illuminando con la sola luce del giorno e/o le poche esistenti nella notte (che poi negli anni novanta diventeranno le regole diktat dei film targati Dogma danesi, nda).

O Ultimo tango di Bertolucci: non amato da Rossanda perché visto alcuni anni dopo, quando ormai la ferocia della censura aveva già colpito quello che fu “il film da bruciare” perché irrompeva in una società bigotta in fase di pseudo-apertura morale, mentre per Ciotta, visto nel ’75, anno della sua breve uscita nelle sale italiane, fu uno shock rivelatore riguardo l’idea sessantottina di tutto impegno politico e niente sentimenti, e per Silvestri aveva tentato di raffigurare simbolicamente le diverse culture, europea e americana, nonché di fondere godardianamente cinema d’autore e cinema da eroe americano.

Se Bertolucci anni dopo aveva fatto da testimonial in una campagna per abbonamenti, si scopre da Rossanda che Simone Signoret e Yves Montand, entrambi vicini al PCF fino all’invasione di Praga, nel 1969 avevano contribuito con ben quattro milioni di lire per iniziare l’avventura giornalistica del manifesto. Più avanti racconta le assemblee durante il maggio parigino, dove non si dava la parola agli artisti “arrivati”, per cui borghesi, e Sartre rinunciò a intervenire, mentre tanti altri vennero incoraggiati nel nome di un “tutti” a esprimere la propria opinione, ai sensi di una comunità che – secondo Rossanda – nel cinema europeo non fu mai raggiunta. Qui cita una bellissima frase di Deleuze, tuttora molto attuale – “Un conto è guardare il mondo dalla finestra del proprio indirizzo, un altro guardare il proprio indirizzo dall’orizzonte del mondo” – per motivare l’avversione ai film di Truffaut e rilancia con un “mi fate girar la testa con il vostro lessico” quando Mariuccia Ciotta le spiega cosa l’aveva colpito in Le due inglesi e Adele H: un’indagine sul “come i sentimenti dilaniano le persone”, “come l’amore sia una forma d’arte estrema”, definendo il regista-critico della nouvelle vague “un teppista furioso del cinema” e “un maestro-distruttore del galateo sentimentale”.

Per tantissimi anni Rossanda, Ciotta e Silvestri avevano condiviso la stessa redazione, lo stesso giornale, su pagine diverse, e ho sentito spesso dire che il cinema era considerato non adatto a parlare di politica: questo libro chiarisce non pochi malintesi, individuali e generali, cinematograficamente e politicamente parlando.