In un saggio che avrebbe dovuto aprirgli le porte del riconoscimento accademico, e che invece venne impietosamente respinto perché giudicato poco ortodosso e inservibile a una concezione disciplinare del sapere, Walter Benjamin scriveva che il contenuto di verità di un singolo frammento di pensiero è tanto più alto e decisivo quanto meno è immediata la sua relazione con l’insieme.

QUESTA AFFERMAZIONE ben si presta alla descrizione dell’intero percorso di ricerca di un intellettuale sardo che del culto micrologico del frammento ha fatto la sua vocazione spirituale. Allievo diretto di Ernesto de Martino, figura poliedrica di antropologo, critico d’arte, linguista, filosofo, Placido Cherchi ha sempre rivendicato con dignità la sua professione di insegnante liceale, motivando la sua distanza dall’accademia come una scelta di orgoglio, come un atto di libertà e di amore per il senso autentico della ricerca. Una ricerca, la sua, che solo apparentemente sembra limitarsi all’ambito ristretto della cultura sarda ma che, proprio nelle porosità e negli intrecci di vari percorsi disciplinari apparentemente sconnessi fra loro, trova la forza per espandere il proprio contesto di riferimento, proiettando il nucleo speculativo di quelle riflessioni micrologiche in un discorso più ampio, nell’orizzonte globale della cultura critica.

IL SUO PROFILO intellettuale è magistralmente ricostruito nell’ultimo libro di Silvano Tagliagambe, pubblicato dall’editore nuorese Il Maestrale e intitolato Placido Cherchi. La cultura dell’ologramma (pp. 208, euro 20). Un volume che contribuisce a guidare il lettore verso quelli che sono i punti cruciali e i principi costanti della riflessione del pensatore sardo, che viene ricostruita attraverso digressioni e approfondimenti che mostrano il respiro internazionale e la profondità della sua indagine, il cui leitmotiv viene individuato nella categoria interpretativa della «trascendentalizzazione del realismo», dell’oltrepassamento del limite e del confine.
Si tratta di un motivo che emerge fin già dal primo scritto di Cherchi su Paul Klee, del quale descrive il progetto figurativo e teorico come una «cosmogonia-di-un-mondo-possibile», definendo il pittore tedesco vero e proprio «signore del limite». Concetto, questo del limite, del quale Tagliagambe ci mostra le molteplici declinazioni, i vari contesti di applicazione in cui esso riappare nel corso della riflessione di Cherchi. Il suo pensiero può infatti essere letto come una «epistemologia del confine» (per utilizzare una terminologia cara a Tagliagambe), laddove il confine è inteso non, banalmente, come linea di demarcazione o come cesura ma, al contrario, come «barriera di contatto».

O ANCORA (per tornare circolarmente all’incipit benjaminiano) come Passage, vale a dire come una «interfaccia» che «distingue e nello stesso tempo mette in contatto ambiti che pur tuttavia rimangono autonomi»: gli ambiti del reale e del possibile o, meglio ancora, del virtuale e dell’effettuale.
È solo mettendo in contatto queste due dimensioni che si è in grado di compiere un oltrepassamento autentico e produttivo della realtà, una sua costruzione e ri-costruzione.

Ed è così che Cherchi rielabora la nozione demartiniana di «etnocentrismo critico», dove il sé collettivo si costruisce nel «signoreggiamento del limite», nella capacità di oltrepassare quella linea divisoria che delimita le datità precostituite del «noi» e del «loro», muovendosi verso uno «spazio intermedio» (per utilizzare un altro termine caro a Tagliagambe) la cui posta in gioco è la «dilatazione delle accezioni possibili» dell’esperienza, non solo individuale ma, soprattutto, collettiva. Possibilità che è contenuta (ed è forse qui che sta il maggior valore dell’opera di Cherchi) nel carattere «coscienziale» della lingua sarda, per eccellenza lingua del condizionale e del possibile, e perciò in grado di tracciare un’idea di storia radicalmente diversa da quella «basata sull’idea della crescita e del progresso». Una storia che non deduce mitologicamente alcuna costante resistenziale, ma che lascia sempre aperta quella possibilità di oltrepassare i limiti imposti dalla storia stessa.