I tempi felici verranno presto. È un bel titolo quello che ha scelto Alessandro Comodin per il suo nuovo film, molto atteso dopo il successo del precedente L’estate di Giacomo con cui il cineasta, nato nell’82 nelle campagne vicino a Udine e che ha studiato cinema in Belgio dove vive, si è fatto notare e amare in tutto il mondo. Quel genere di entusiasmo che rende il film successivo più difficile anche se guardando I tempi felici verranno presto non sembra che Comodin si sia fatto spaventare mantenendo al contrario un orizzonte poetico e filmico di magnifica intraprendenza.

Come il suo titolo che sembra nella promessa invitare a un’attesa rassegnata o a un gesto di rivolta il film, presentato ieri, nel primo fine settimana (assai nervoso a livello sicurezza) in proiezione speciale alla Semaine de la Critique, si muove in molte direzioni. Non una sola storia ma diverse nelle quali ritornano alcuni dei protagonisti;non un’epoca stabilita ma suggestioni che intrecciano i racconti ascoltati dal regista nel suo Friuli, le leggende e le mitologie dei boschi e dei monti, la Storia, la seconda guerra (anche se ha girato nella zona intorno a Cuneo e in Valle d’Aosta), certe figure di uomini la cui esperienza privata racchiude frammenti di un narrazione collettiva.

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Due ragazzi si nascondono nel bosco. Hanno abiti militari ma non sono armati. Fuggono da qualcosa, da qualcuno, forse una guerra. Corrono, ridono, si picchiano, cacciano gli animali per mangiare. Finché trovano un fucile in una casa abbandonata e saccheggiata. L’uomo che vi abitava è stato ucciso, nel bosco arrivano altri uomini, danno la caccia ai due ragazzi. Il mondo da cui cercavano riparo, è arrivato brutalmente anche lì.

Una ragazza scopre uno strano passaggio labirintico di tunnel sotto terra. In paese parlano del lupo, il padre pastore è stanco e preoccupato dai continui attacchi. La figlia è pallida e molto malata, ama andare nel bosco da sola o insieme all’amato asino. Seguendo i tunnel arriva a un fiume, si bagna nuda e incontra il lupo, è biondo e bello davanti a lei appare quasi intimidito. I loro corpi si sfiorano in un incanto di sensualità. Era uno dei ragazzi in fuga, lo ritroviamo in carcere, lei è la donna che ama.

Comodin racconta che tra le sue ispirazioni c’è la vicenda di un amico del nonno, Dino Selva, scomparso alla fine della seconda guerra mondiale in Russia, dove ha vissuto per anni, è riuscito a fuggire dal treno che lo portava in Siberia, è stato in prigione di nuovo per poi tornare in Italia quando lo credevano tutti morto. E a unire le figure del film (scritto dal regista insieme a Milena Magnani) è proprio questo desiderio di fuga, un sentimento condiviso dai due ragazzi del primo episodio, Tommaso e Arturo (Erikas Sizonovas e Luca Bernardi) e da Ariane la protagonista del secondo (Sabrina Seyvecou che è anche l’unica attrice professionista) che li oppone al mondo, a una realtà che stride brutalmente con il loro desiderio: che poi è vivere, liberare corpi, emozioni, gesti quotidiani, rivoltarsi alla Storia, come è la guerra che intrappola i due giovani soldati o alla condanna personale della malattia che perseguita Ariane.

Il lupo, il bosco (come nel film di Alain Guiraudie) figure archetipe delle fiabe, che tornano con sempre più insistenza nel cinema di oggi. Non si tratta però di una nostalgia per una wilderness perduta, il bosco, il paesaggio, la natura in questo film – un po’come nel precedente L’estate di Giacomo oltre a far parte dell’esperienza del regista che ci è cresciuto, diventano una sorta di cartina geografica sentimentale, il luogo di un altrove in cui dispiegare un universo libero dalle gabbie narrative e dalle imposizioni di una forma cinematografica a senso unico.

Rocce, alberi, erba, vento, acqua, notte, foglie respirano nelle immagini insieme ai protagonisti, ai loro corpi che lottano e fuggono come i loro cuori, a una carezza sensuale nell’acqua, al tremore della paura di un futuro ignoto – al montaggio c’è insieme al regista Joao Nicolau, autore dello strepitoso John From. Comodin mescola le traiettorie, non impone una «storia», nel bosco, lungo i passi dei personaggi illumina un sentimento universale e contemporaneo nel quale noi spettatori possiamo trovare tracce di noi stessi, le angosce, la paure, le fantasie inespresse, la solitudine. La Storia – non sono quelle regioni di partigiani, resistenza, – e un presente di insicurezza.

Lui, Comodin, come un alchimista mescola realtà e meraviglioso (tra le ispirazioni cinematografiche dichiarate c’è Il dio nero e il diavolo biondo di Rocha), generi e potenzialità delle immagini. Un sincretismo che anche nelle sue imperfezioni scompiglia le certezze per riscrivere il romanzo di formazione più classico nel segno del dubbio. Chissà se I tempi felici verranno presto, ma intanto però questo cineasta ci ha regalato un prezioso momento di cinema.