Con i suoi più di quaranta libri, le oltre duecento tra introduzioni e curatele, gli innumerevoli interventi e recensioni su quotidiani e riviste, i suoi decenni d’insegnamento, Harold Bloom, Sterling Professor of the Humanities a Yale e Charles Eliot Norton Professor a Harvard, ha interpretato a tutto tondo il ruolo del grande accademico. Non senza la giusta dose di eccentricità: per esempio, amava dichiarare pubblicamente che il più grande critico letterario di tutti i tempi è il dottor Johnson e che subito dopo veniva lui, Harold Bloom, suo allievo e seguace. E in effetti, proprio come il grande dottore, Bloom fu letterato e biblista, poligrafo e polemista.

Delle «guerre di carta» che ingaggiò, la più celebre fu quella contro «la scuola del risentimento», etichetta sotto la quale mise gli studi culturali applicati alla letteratura. Disprezzò la saga di Harry Potter, suscitando scandalo.
Tra i suoi molti lavori di biblista, il più popolare è The Book of J (1990), dove argomenta che lo strato più antico della Bibbia è costituito da testi composti da una donna vissuta all’epoca del re David. Johnson scrisse quell’opera minicanonica e molto idiosincratica che sono le Vite dei poeti inglesi, nella quale presenta cinquantadue poeti, a cominciare dal secentista Cowley. Duecento anni dopo Bloom avrebbe dettato il Canone occidentale, che restringe a ventisei autori. Ai due estremi Shakespeare e Beckett: ma la più notevole eccezione non anglosassone è Dante. Il libro fu subito un best-seller.

Pagine postume
I titoli di Bloom sono sempre efficaci. E lo è anche quello di questo ultimo suo libro, pubblicato postumo, Posseduto dalla memoria (traduzione di Roberta Zuppet, introduzione di Piero Boitani, Rizzoli, pp. 592, € 23,00). Nella Prefazione l’autore sottolinea la concentrazione di significato del titolo, in cui «è racchiuso l’intero libro». Distanziata rispetto all’immanenza del «possesso» e della «possessione» (sensi entrambi impliciti in Possessed), declassata a causa efficiente, la memoria si carica lì di tutte le connotazioni di supremazia – fisica, morale, politica – «che la radice indo-europea poti- sottindende». Bloom non ha mai fatto mistero della propria memoria, ma questa memoria che ora lo «possiede» è tutt’altra specificazione rispetto alla facoltà prodigiosa che gli permette di citare letteralmente facendo a meno dei testi.

In quanto teorico del Canone, Bloom ha sempre avuto una sua personale teoria della memoria. Dolore e memoria gli appaiono congiunti, a formare l’area entro la quale si coagula la nozione di significato letterario. A questo valore già di per sé importante, il Possessed del titolo affianca l’idea di un eros della memoria, che il libro conferma dalla prima all’ultima pagina. Dal «lutto erotico» di Hart Crane per la «voce» perduta ma ancora udita nel ricordo, al Marcel del Tempo ritrovato, che nel desiderio folle di gettarsi fra le braccia della nonna morta ormai da più di un anno, conquista la certezza così di quella morte come dell’opera futura che ora è certo di scrivere. E finalmente arriva a sentirsi vivere fra due tempi, ovvero fuori del tempo.

Da questa memoria il critico non è solo posseduto, ma anche investito di un potere: empowered. Traspare da Possessed by Memory, il cui sottotitolo rivelatore è La luce interiore della critica, il desiderio di fondare la scrittura sul lavoro di una memoria «ibridata», che incrocia il commento al testo con l’intermittenza del cuore. La venatura di autobiografismo interiore, sempre latente nella pagina di Bloom, è il tratto «agostiniano» del libro.

In Agostino le «caverne incacolabili della memoria» erano una scala ad deum. La memoria comprendeva dentro di sé tutte le facoltà, incluso l’oblio, ma trovava in Dio il suo limite alto: «Supererò anche questa mia facoltà, cui si dà il nome di memoria, nell’anelito di coglierti là dove si può coglierti, e di aderire a te da dove si può aderire a te».

Citazioni da Stevens
A differenza del santo, il critico non ha un punto più alto cui «aderire» superandosi. Bloom cita il verso di Wallace Stevens, «Io stesso ero la bussola di quel mare», e chiosa: «il tributo di Stevens migliora e amplia le mie mezzenotti turbate, e le ore morte che indugiano finché un’alba sorprendentemente fredda di fine agosto non attraversa New Haven».

Il libro è costellato di questi stacchi autobiografici, che collocano il testo poetico, o biblico, del quale viene offerto il commento, sullo sfondo dell’esperienza vissuta. Questi incroci, per lo più notturni, segnano gli attimi privilegiati in cui dal nodo possessione/possesso distilla un ultimo succo di significato, colto sul limitare della vita.

Anti-eliotiano d’annata, Bloom non è certo tipo da accodarsi al celebre «su questi frammenti ho puntellato le mie rovine». Meglio gli si addice il «rovinare le sacre verità» di Andrew Marvell, il poeta secentista al quale nel 1989 ruba il titolo del libro omonimo: un’opera spartiacque che, come sottolinea Piero Boitani, apre alle successive teorizzazioni sul Canone. «Rovinare le sacre verità per ridurle a favole e vecchie canzoni»: Marvell aveva applicato questa diagnosi niente meno che al Paradiso perduto di Milton. Su quella visione già di per sé estrema, il critico ora rilancia. Con un doppio salto mortale, si gioca la chance dell’immortalità. «Vi è un errore ottico nel desiderare la propria sopravvivenza… Per me la sopravvivenza è una modalità simile al lavoro del lutto».

Con la sua originale elaborazione sulla memoria, Bloom fa reagire sul linguaggio specialistico della critica letteraria la disgregazione della sequenza cronologica propria del modernismo. Guadagna così alla scrittura critica l’eros modernista. Modernistico è il sottofondo erotico del titolo, e l’aspettativa del lettore ne è sollecitata. L’illustre critico scoprirà le carte? Metterà a nudo, nel congedarsi, le ragioni che l’hanno condotto dall’Angoscia dell’influenza al Canone, al suo proprio Canone? Da Dante a Proust, con Shakespeare al centro, come stella polare? E tutto senza dimenticare Yahvè «dal nome misterioso», il più bizzarro dei personaggi letterari, da alcuni soprannominato lo «Straniero», o l’«Altro»: ma in fondo un contemporaneo dell’iracondo Achille, suo dirimpettaio sull’altra sponda del Mediterraneo.

Modernistica è, soprattutto, la scoperta del personaggio che riesce a guardarsi e ascoltarsi dall’esterno. Questa «stranezza» (strangeness) shakespeariana era già stata identificata ai tempi del Canone – più o meno un quarto di secolo fa – e poi più volte testata sui personaggi, o meglio sulle personalities, come ora Bloom ama dire: da Falstaff a Cleopatra. E per esprimere tutta questa stranezza, il Critico da Vecchio conia un’espressione che comunica in maniera sorprendente il senso joyciano dell’ibridazione linguistica. In lingua bloomiana guardarsi e ascoltarsi dall’esterno, come se si fosse un altro, un estraneo, si dice proprio così, maccheronicamente: self-otherseeing.

Astuzia, esilio, silenzio
È ovvio che questa ennesima «stranezza» – ma questa volta del critico – è al polo opposto dall’«adesione» agostiniana. Tanto che per esprimerla anche il critico deve allontanarsi dalla propria interiorità, e persino dalla propria vecchiaia. Rubando il motto di Dedalus nel Ritratto dell’artista da giovane: «astuzia, esilio, silenzio». Quale formula più appropriata all’Amleto «cattivo», che senza farsi troppi scrupoli manda i poveri Rosencrantz e Guilderstern a morire in Inghilterra? O al Critico anziano, che conia il vocabolo giusto per dire la stranezza di Amleto, proprio mentre sta scrivendo l’elegiaco Hamlet: Poem Unlimited (2003)? Quanto a disgregazione modernistica, Amleto è prototipo insuperabile, lui che nato in Danimarca finisce con l’approdare al Globe Theatre, tanto ha l’Inghilterra, e la lingua inglese, nel cuore.

Vero e proprio brand della sconfinata produzione shakespeariana firmata Harold Bloom, il self-otherseeing amletico è al polo opposto rispetto all’adesione di Marcel a se stesso. Ma si sa: «Shakespeare non andava alla ricerca del tempo perduto». L’understatement non poteva essere più asciutto.