«Le forze armate non vogliono intervenire nel dibattito politico. Ne seguono però da vicino gli sviluppi in relazione alle posizioni legali dei propri membri». È il passaggio cruciale del comunicato diffuso ieri dall’esercito turco. Il testo è molto diplomatico, se si va a guardare alla sola forma. Da un lato rassicura in merito all’ipotesi golpe, già ricorsa in altri momenti turbolenti della storia repubblicana del paese. Dall’altro si limita a precisare che i militari osserveranno nel dettaglio i casi di chi, tra loro, dovesse finire impelagato nella «tangentopoli» che sta facendo traballare il governo Erdogan, mettendo a nudo lo scontro tra quest’ultimo e l’altro uomo forte della Turchia: Fetullah Gulen, capo di Hizmet, potentissimo movimento politico-religioso.
Ma, conoscendone la storia di interventismo, è sempre bene tenere conto dei militari. Anche se usciti malconci da questi dieci anni di confronto serrato con Erdogan, potrebbero ancora riservare qualche colpo a sorpresa. L’impressione, tuttavia, non è l’intervento diretto. Se mai potrebbero approfittare della tenzone tra Erdogan e Gulen, per recuperare prestigio e spazio di manovra.

Erdogan e Gulen, una volta alleati e uniti dall’obiettivo di spezzare il monopolio del laicismo, retaggio della rivoluzione repubblicana di Mustafa Kemal Ataturk, sono ai ferri corti. C’entrano senz’altro le divergenze politiche. Erdogan vuole una grandeur turca e questo l’ha portato a collidere con Israele, oltre che a suscitare diffidenza tra gli alleati atlantici. Gulen, pur guardando come Erdogan alla riscoperta dello spazio ottomano, intende invece mantenere la relazione privilegiata con lo stato ebraico e il mondo occidentale.
Pesano anche le elezioni presidenziali di agosto. Erdogan, non sazio dei due premierati, vorrebbe candidarsi e stravincere. Gulen preferirebbe un po’ di ricambio. Conta infine, forse soprattutto, la sete di potere. Il declino dell’establishment laicista-militare e il boom economico hanno aperto una prateria di opportunità. Erdogan e Gulen faticano a dividersi equamente il bottino. La tangentopoli turca s’incardina in questo scenario.

E non si può dire che il primo ministro non abbia reagito prontamente. Ha silurato centinaia di agenti di polizia ritenuti vicini a Gulen e nominato nuovi dieci ministri. Tra questi spicca Efkan Ala, agli interni. Uomo duro e pragmatico, è stato governatore della provincia di Dyarbakir, roccaforte politica della minoranza curda. È lui che dovrà curare l’affondo contro Gulen. In questo dovrà giocare di sponda col nuovo responsabile della giustizia, Bekir Bozdag, subito andato all’attacco del supremo consiglio dei giudici e dei procuratori (Gulen ha molti seguaci tra i magistrati), che l’altro giorno ha congelato il decreto governativo che impone alla polizia giudiziaria di informare il ministero ogni volta che viene aperta un’inchiesta. È, assieme alla rimozione di Muammer Akkas, il giudice che seguiva l’affaire corruzione, un altro tassello del contrattacco di Erdogan, incalzato anche dalle (crescenti) proteste di piazza e alle prese con qualche defezione nel suo partito, l’Akp (ieri tre parlamentari l’hanno abbandonato). Ora si aspetta che Gulen torni presto a menare fendenti.