L’impatto visivo del trattato di pace tra Israele ed Emirati arabi non è lo stesso offerto dai predecessori, la tavolata con il presidente egiziano Anwar Sadat e il premier israeliano Menachem Begin a Camp David il 17 settembre 1978, sotto lo sguardo gongolante di Jimmy Carter, e quella con re Hussein di Giordania e il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin seduti accanto a Bill Clinton a Washington il 25 luglio 1994.

Ma c’è solo da aspettare per la scenografica stretta di mano: quello annunciato ieri da Donald Trump non è che il primo passo prima della firma sulla fine ufficiale delle ostilità tra Israele ed Emirati. Ufficiale, perché ufficiosa la pace lo era da tempo.

Una pace segnata, tre anni e mezzo fa, dalla nascita in sordina della “Nato araba”, alleanza militare in chiave anti-Iran tra Egitto, Giordania, Arabia saudita ed Emirati (manca solo Riyadh al poker israeliano); proseguita con incontri dietro le quinte di alti funzionari dei due paesi e collaborazione di intelligence ed esplosa con l’annuncio, lo scorso dicembre, della partecipazione israeliana all’Expo 2020 di Dubai. Il penultimo passo lo scorso maggio: per la prima volta un volo della compagnia emiratina Etihad atterrava all’aeroporto Ben Gurion con a bordo aiuti anti-Covid per i palestinesi. Un colpo al cerchio, uno alla botte. L’ultimo a giugno: l’accordo tra due imprese israeliane e l’emiratina Group24 per l’uso di intelligenza artificiale nello sviluppo di tecnologie anti-Covid.

Ieri, in attesa della foto-ricordo, è stata una pioggia di tweet, timbro della diplomazia 2.0. Il primo è stato Trump, felice di segnare un punto in vista delle presidenziali di novembre: «Grande successo oggi! Storico accordo di pace tra due nostri grandi amici». Il premier Netanyahu lo ha ritwittato in ebraico: «Giorno storico».

Ha chiuso il principe ereditario e ministro della Difesa Mohammed bin Zayed che ha dato conto dei contenuti dell’intesa (battezzata Accordi di Abramo), elencati poco dopo nel comunicato congiunto dei tre che apre «alla piena normalizzazione dei rapporti»: nelle prossime settimane le delegazioni israeliana ed emiratina si incontreranno per firmare accordi su investimenti, turismo, voli aerei, sicurezza, telecomunicazioni, energia e salute e per lo scambio di rappresentanze diplomatiche (per ora, secondo al-Arabiya, Abu Dhabi non aprirà l’ambasciata a Gerusalemme, ma a Tel Aviv).

In base all’intesa raggiunta, dicono fonti della Casa bianca smentite in serata da Netanyahu, il governo di Tel Aviv accetta di sospendere temporaneamente l’estensione della sovranità su circa il 30% di Cisgiordania occupata, ovvero i grandi blocchi di colonie e la Valle del Giordano.

Ecco spiegata, forse, la mossa estiva di Netanyahu che aveva rinviato a data da destinarsi l’annessione (originariamente prevista per il primo luglio) citando la necessità di concentrare gli sforzi sull’emergenza Covid-19 e non citando la chiara ostilità del movimento dei coloni, che considerano la Cisgiordania già annessa e la sua “ufficializzazione” il primo step verso un eventuale staterello palestinese. Probabile che il mancato via libera della Casa bianca sia servito a salvare la faccia di Abu Dhabi: prima la pace, poi l’annessione. Come è altrettanto probabile che l’annuncio, in piena crisi libanese e con Hezbollah sulla graticola, sia foriero di conseguenze sul fronte sciita, nel mirino della Nato araba.

Nella conferenza stampa di ieri sera Netanyahu ha festeggiato, ricordando il suo impegno («fin dal 2009») per normalizzare i rapporti con il Golfo («Vedono la mia forza, non esito contro l’Iran») e i contatti in essere con altri paesi, dall’Oman al Sudan.

Una vittoria per tutti: per Trump in chiara difficoltà tra epidemia e recessione; per Netanyahu che mai aveva visto manifestazioni di fronte alla sua residenza con centinaia di israeliani furiosi per la gestione dell’emergenza sanitaria; e per gli emiratini, primi nel Golfo a fare la pace con Israele e intenzionati a mostrarsi come i «moderati» del gruppo, nonostante siano impegnati a infiammare sanguinose guerre dallo Yemen alla Libia. Vero è che a Tel Aviv non mancano i mal di pancia, espressi da Naftali Bennett, ex ministro di Netanyahu e colono lui stesso, felice a metà: bene la pace, meno il rinvio dell’annessione.

Ma è ancora più vero che chi perde sono i soliti: i palestinesi. Se l’accordo prevede il congelamento dell’annessione, la normalizzazione israelo-sunnita prosegue spedita a tutto vantaggio dell’occupazione. Che è, dopotutto, il vero obiettivo del cosiddetto Accordo del Secolo trumpiano: una pace con il mondo arabo che cancelli una volta per tutte le aspirazioni palestinesi all’autodeterminazione e alla libertà.

La prima, ieri, a reagire è stata Hanan Ashrawi, membro del Comitato esecutivo dell’Olp: «Israele viene premiato per non dichiarare apertamente cosa sta facendo alla Palestina illegalmente dall’inizio dell’occupazione. Gli Eau sono usciti allo scoperto con la loro segreta normalizzazione con Israele». Rabbia anche da Hamas e Jihad islamica.