L’edizione numero 19 del Roma jazz festival – dal titolo No Borders. Migration and Integration, dopo le date di Dianne Reeves, il batterista-compositore Antonio Sánchez, il Cross Currents trio, Archie Spepp, Tigram Hamasyan e Donny McCaslin, ha accolto nella Sala Sinopoli dell’Auditorium l’85 enne pianista sudafricano Abdullah Ibrahim. Autoesiliatosi dal Sudafrica ai tempi di un violento ed odioso apartheid, Ibrahim è da allora cittadino del mondo pur avendo fieramente lottato per la libertà nel suo paese dove, a più riprese, è tornato. Il 2019 per il pianista è un anno di significative presenze discografiche: l’album The Balance (Gearbox) segna il positivo ritorno del sestetto Ekaya mentre Dream Time (Enja) è un solo-piano inciso a marzo dal vivo a Söllnhuben (Germania). È quest’ultimo lavoro che aiuta a «leggere» il concerto romano. Abdullah Ibrahim ha voluto suonare senza amplificazione, sfruttando le pure risorse acustiche del pianoforte a coda. Come nel concerto tedesco, ha usato il melanconico Blue Bolero quale incipit, conclusione e presenza sonora ricorrente nel dipanarsi del solo.

DA TEMPO Ibrahim ha asciugato le sue performance pianistiche tessendo delle estese suite in cui assembla brani del proprio vasto repertorio. Nel recital al RJF ha eliminato del tutto i pezzi ritmati (niente kwela, quindi) e accentuato la sperimentazione fra un tema e l’altro con una soffusa ricerca timbrica e improvvisativa. In queste fasi ha utilizzato anche dissonanze monkiane, valorizzando i silenzi (un tempo poco presenti) e lasciando spazio risonante attorno alle frasi, melodiose o inquiete. Trieste My Love, For Coltrane, Capetown District Six si riconoscono nel divagante incedere, con il pianista ispirato e assorto e la performance congelata in un tempo medio-lento. Le note di Blue Bolero l’hanno temporaneamente conclusa ma l’applauso del pubblico ha convinto il pianista ieratico a concedere due bis.

NEL PRIMO ha suonato una delle sue pagine più toccanti, The Wedding, mentre nel secondo, stanco fisicamente ma ancora desideroso di «dare», ha cantato: prima probabilmente nella materna lingua dei Sotho e poi in inglese, evocando versi tratti dagli spiritual. Una chiusa forte, a sottolineare quel legame tra Africa e Afroamerica che Abdullah Ibrahim ha sempre esplorato. Sincero il suo sorriso di ringraziamento, le mani giunte, incerto il suo passo: non la musica, ancora in grado di suscitare emozioni reali.