Cosa accade a Teheran e nel Golfo? Forse potremo chiederlo al ministro degli esteri iraniano Javad Zarif – di recente nella bufera per le sue dichiarazioni contro il generale Qassem Soleimani, ucciso dagli Usa nel 2020 – quando verrà Roma tra qualche settimana.

Alla vigilia delle elezioni presidenziali di giugno. La missione non è ancora ufficiale ma l’indiscrezione è comunque interessante. «L’Iran al tempo di Biden – scrive nel suo ultimo libro Luciana Borsatti già corrispondente dell’Ansa a Teheran – non è questione che riguardi soltanto Teheran e Washington: riguarda il futuro di tutto il Medio Oriente e dell’Europa come suo immediato vicino». Sostanzialmente anche il futuro di tutti noi.

Nel Golfo è partito il «Grande Gioco» degli equilibri di potenza tra Oriente e Occidente. Insieme all’annuncio del ritiro dall’Afghanistan, gli Usa di Biden, diversamente da quelli di Trump, stanno lavorando per cambiare, almeno sul piano diplomatico, i rapporti di forza sul fianco sud-orientale della Nato. Lo stesso presidente iraniano Hassan Rohani, ha dichiarato che le «sanzioni Usa saranno presto rimosse».

Forse Rohani è un po’ troppo ottimista, visti i precedenti, ma a Vienna gli americani, su spinta degli europei, stanno negoziando il rientro nell’accordo sul nucleare con l’Iran, voluto dall’amministrazione Obama nel 2015 e cancellato da Trump nel 2018. Iraniani e sauditi, i due irriducibili avversari del Golfo, inoltre, sono pronti a trattare «a qualsiasi livello» come ha confermato Teheran commentando le aperture del principe ereditario Mohammed bin Salman, il mandante dell’assassinio del giornalista Jamal Khashoggi.

Non è un caso che gli israeliani, come ha anticipato Haaretz in queste settimane, abbiano mangiato la foglia: il premier uscente Netanyahu forse non è più l’uomo giusto per avere buoni rapporti con Washington, considerato che era il beniamino di Trump da cui ha ottenuto in questi anni il massimo: Gerusalemme capitale, la cancellazione dell’accordo con l’Iran e un ruolo da superpotenza sancito dal Patto di Abramo che Israele ha siglato con le monarchie arabe. Questa probabilmente la ragione di fondo, suggerita dai vertici militari e dei servizi, per cui il presidente israeliano Reuven Rivlin ha affidato l’incarico di formare il governo a Yair Lapid che guida il blocco anti-Netanyahu.

Attenzione, non è che in Medio Oriente sia scoppiata la pace. La «guerra ombra» tra Israele e l’Iran continua: in territorio siriano, sotto gli occhi vigili ma passivi della Russia di Putin e delle sue basi militari, e con i sabotaggi alle centrali atomiche iraniane come quella di Natanz. Questa settimana Israele ha la lanciato un attacco aereo nella Siria nord-occidentale colpendo le città di Haffeh, Jableh e Masyaf. La difesa aerea siriana ha risposto agli attacchi che avevano come bersaglio postazioni degli Hezbollah libanesi e delle milizie filo-sciite legate ai pasdaran iraniani. Un raid che potrebbe essere la risposta di Tel Aviv al lancio di un missile, avvenuto nella notte del 22 aprile scorso, che si è schiantato a pochi chilometri dalla centrale nucleare israeliana di Dimona, in concomitanza con un altro attacco dell’aviazione israeliana nei pressi di Damasco.

Ecco perché da queste parti del mondo si gioca anche il nostro futuro. Gli israeliani, secondo americani e britannici, posseggono centinaia di testate atomiche e possono lanciarle su bersagli in ogni direzione – tutti sono sotto tiro. Come asseriva il generale Moshe Dayan, Israele deve apparire «come un cane rabbioso troppo pericoloso da provocare».

Nel primo decennio del Duemila la rivista specializzata Jane’s Defence valutava che Israele avesse prodotto, fino a quel momento, circa 400 testate, impiegabili da missili con 3mila chilometri di gittata fino ai sottomarini. I solidi agganci internazionali di cui possono disporre gli israeliani, nonché un’industria tecnologicamente avanzata, consentono a Tel Aviv di produrre ogni anno dalle dieci alle quindici bombe atomiche. E anche ordigni letali ma di limitata contaminazione radioattiva da impiegare contro obiettivi vicini ai confini, come le forze Hezbollah dispiegate in Siria.

Finora Washington si è affidata a Israele per contenere l’influenza iraniana in Medio Oriente lasciando «carta bianca» allo Stato ebraico in cambio di concessioni ai «nuovi» alleati arabi del Patto di Abramo. Da questi accordi sono rimasti fuori i sauditi e proprio per questo adesso Riad trova interessante trattare con Teheran, soprattutto dopo che nel 2019 gli attacchi degli Houthi yemeniti, alleati degli iraniani, agli impianti dell’Aramco hanno provato che i Patriot Usa e lo «scudo» americano non sono così affidabili.

Ma soprattutto il regno wahabita diffida di un Patto di Abramo che può significare diventare «prigioniero» di Israele. Per questo nel Golfo è in corso a una diplomazia a tutto campo, sperando che non la preceda una «guerra a tutto campo», come minaccia da tempo Israele.