Narrazione concentrica, stratificata, che si gioca su spazi geografici e storici temporalmente distanti, Il Vesuvio universale (Einaudi, 2018) è un libro che affronta con i mezzi della scrittura, della letteratura, la complessità di un microcosmo e del suo immaginario, ne sviscera compiutamente la natura eccentrica e feroce, miracolosamente vitale.

L’AUTRICE, Maria Pace Ottieri, già fattrice di ibridi narrativi come Quando sei nato non puoi nasconderti (Nottetempo), una delle prime e puntuali cronache sul popolo dei migranti sommersi, dal quale Marco Tullio Giordana ha tratto un film, individua nel Vesuvio un luogo di forte impatto emotivo, naturalistico e dell’immaginazione, «luogo ideale per occultare cadaveri, rifiuti, merci proibite», che diventa «universale» non solo per un richiamo da un punto di vista onomatopeico apocalittico, ma una modalità di racconto mirata a una strategia di accerchiamento della realtà, penetrata nell’intreccio di elementi diversi che sedimentano in un palinsesto eterogeneo.

CRONACA GIORNALISTICA, indagine di costume, notazione storica, inchiesta sul campo, racconto tout court o memoriale di viaggio, approfondimento sociologico, sono alcune delle porzioni di senso che compongono questo libro a mosaico, che è anche un prototipo del reportage narrativo espresso ai suoi massimi livelli formali e di potenza espressiva.

La Ottieri, che si muove rabdomanticamente «sotto il vulcano», in stato di quiete ma uno dei più pericolosi del mondo, sa intercettare in questo modo la moltitudine, saldare gli aspetti profondi della vita sociale – che spesso restano occultati, dimenticati dal cattivo giornalismo che cerca i fatti, o meglio i «fattacci», nei loro aspetti più pittoreschi e spettacolari – con i fasti antichi delle ville romane, i ritrovamenti, come la statua di Dioniso, di un’antichità dorata che convive con le discariche della camorra ricavate dalle cave dismesse. Fortemente urbanizzata, infestata dall’abusivismo, dalla disoccupazione e dalla criminalità, «la “Città vesuviana” è uno dei luoghi d’Italia dove si vive peggio», come scrive l’autrice, ma anche dove i 700mila restanti ne subiscono il fascino, la bellezza vitalistica e il senso di appartenenza.

Ma Il vesuvio universale è anche e soprattutto un libro fatto di narratori che l’autrice incontra lungo il suo cammino, ognuno dei quali rivela nel racconto orale un aspetto significativo di una antropologia che mescola tammurriata e stoccafisso, Fiat, aristocrazia operaia, il sarto di Gomorra, i sick indiani e i nuovi cinesi trapiantati da Prato. Gente che quotidianamente resiste alla «Muntagna» a Somma Vesuviana, Pomigliano, Cercola, Terzigno, Torre Annunziata, Pompei. Uno di loro, il decano degli agricoltori, Mario Angrisani, incontrato a Borgo Casamale, dice: «Il paradosso è che da qui viene metà della produzione agricola campana: la Campania riesce a produrre quanto la Lombardia con metà della terra».

Con Luca Rossomando di Napoli monitor la Ottieri va a Terzigno, con la guida Umberto Saetta visita il Parco nazionale, l’operaio Tonino ’O stocco le racconta le mitologie dell’Alfasud, Giuseppe Luongo, vulcanologo discetta sui movimenti della terra, ma incontra anche Benito Pagano artista pirotecnico, Lucio Zurlo, allenatore della Boxe vesuviana e molti altri testimoni oculari di questo microcosmo multiforme.

COME SCRIVE la Ortese ne Il porto di Toledo, una delle presenze letterarie di questo libro, con Goethe, Leopardi, tra gli altri, sotto il vulcano «hanno trasformato l’angoscia in devozione, la malinconia in allegria esasperata, la povertà in attività sconsiderate».