«Non mi toccare, torna domani», canta la sirena al naufrago innamorato che galleggia «in oceani senza navi» nella canzone del 1968 di Tim Buckley , Song to the Siren appunto, che attraversa uno dei video dell’artista israeliana Keren Cytter: Siren. In quel lavoro del 2014, girato nell’appartamento che l’artista stava per abbandonare a Times Square, New York, uno dei temi portanti è proprio il desiderio per una donna vista attraverso il filtro dello schermo del computer, in una conversazione su Skype, impossibile da toccare come la sirena della canzone. Il desiderio per il corpo femminile è però un’arma a doppio taglio: richiamo sensuale ma anche passione distruttiva e violenta, come prova il duplice omicidio messo in scena in Siren o il continuo riferimento allo stupro di Experimental Film, in cui una donna interpretata dalla stessa Cytter e la sua coscienza – un ragazzo – vivono in una stanza da cui non possono uscire.

«Sarebbe ipocrita se la donna non venisse dipinta come l’oggetto del desiderio e anche di violenza, è stato sempre così da migliaia di anni», osserva l’artista nata nel 1977 a Tel Aviv, che ora vive a New York e a cui il Bergamo Film Meeting ha dedicato una retrospettiva di cui, oltre a Siren, fanno parte molti altri suoi video che attraversano gli ultimi 13 anni: dal 2002 di Experimental Film al 2015 di Game.

Il desiderio, in questi lavori, è reso problematico anche dall’impossibilità di definire la reciproca identità, che ci si scambia costantemente in un gioco di ruoli in cui uomini e donne parlano con la voce le une degli altri: in Experimental Film come in Les Ruissellements du diable la coppia di protagonisti si sovrappone e si confonde in un’unica persona. Quest’ultimo video, del 2008, è tratto da Le bave del diavolo, racconto dello scrittore argentino Julio Cortazar che ispirò anche Blow up di Antonioni e che infatti indaga una storia d’amore a partire da una fotografia.

«Volevo realizzare un adattamento fedele di quel racconto – dice Cytter – a cui ho solo aggiunto degli atti sessuali, anche se non si tratta di sesso vero e proprio quanto dell’incapacità del protagonista di sentirsi distinto da ciò che vede». E cioè la donna che ama e che guarda su un ulteriore schermo, quello della televisione, confondendosi con lei che a sua volta si dichiara la proiezione dell’uomo che la guarda. Come già in Blow up infatti le immagini non sono garanzia di realtà né tantomeno della possibilità di raccontare una storia: le narrative sono interrotte, si riavvitano su se stesse e ritornano ossessivamente sulla stessa sequenza.

Come in Siren, dove la realtà è aumentata e allo stesso tempo messa in discussione dall’uso di applicazioni del computer e dei social media: «volevo rendere tutto uniforme: alle volte non so qual è la fonte delle mie informazioni perché confondo ciò che ho letto sul giornale con ciò che ho visto su facebook, le cose di cui ho parlato con altre persone con quelle che ho sentito alla radio. E per restituire la sensazione ho ’appiattito’ tutte queste cose per renderle uguali».

O come in Corrections, del 2013, in cui un omicidio viene raccontato per successive «correzioni» di immagini che tornano ossessivamente: un uomo che getta una sigaretta, schiaccia uno scarafaggio, parla con due ragazze e si rivolge infine a una coppia di sconosciuti, a cui spara a sangue freddo.

Cytter gioca qui e in altri suoi film brevi con i generi cinematografici: il noir o anche il western di Rose Garden realizzato – racconta l’artista – proprio nella patria del selvaggio West: il Texas. «Ero a Houston per una mostra e lì ho girato il film in due soli giorni». Ambientato interamente in un saloon dei giorni nostri, Rose Garden mette in scena una polifonia di personaggi e vicende che si svolgono tutte contemporaneamente e che vengono di volta in volta isolate con l’uso dell’audio. Anche qui assistiamo a una successione di omicidi, l’evento più ricorrente nei suoi lavori. «Perché è divertente – scherza lei – altrimenti sarebbe solo una sequela di persone che parlano, troppo noiosa da girare».