Dopo il successo del corto La giornata, vincitore della menzione speciale ai Nastri d’argento e selezionato tra i cinque migliori cortometraggi ai David di Donatello, Pippo Mezzapesa presenta nella 15° edizione delle Giornate degli Autori di Venezia, come evento speciale fuori concorso, il suo ultimo lungometraggio Il bene mio che vede protagonista Sergio Rubini nei panni di Elia. Elia, resistente e caparbio, è l’ultimo e unico abitante di Provvidenza, un paese fantasma dell’Italia del sud, abbandonato da anni dopo un terremoto. Mentre il resto degli abitanti trova nuova dimora nei casermoni costruiti ai piedi di una collina, Elia cerca di preservare la sua casa e di mantenere in vita la memoria della sua città sperando, un giorno, nel ritorno degli abitanti. Pippo Mezzapesa torna dietro la macchina da presa, grazie alla produzione di Altre Storie, Rai Cinema e il sostegno di Apulia Film Commiscion, per raccontare la favola di un paese fantastico che riflette, all’interno dei suoi confini immaginari, il reale abbandono dei paesi colpiti da disastri naturali e dalla difficoltà di sollevarsi dalle macerie e ricominciare a vivere.
Come nasce l’idea di questo nuovo progetto?
Dalla voglia di raccontare la storia di un paese abbandonato. Sono sempre stato attratto da questi paesi che all’improvviso, soprattutto per degli eventi naturali, sono abbandonati. Ne ho visti ed esplorati parecchi e mi ha sempre affascinato vedere questi elementi e rimasugli di vita che si percepiscono. Una vita che è stata e che non c’è più. Mi piace molto immaginare e raccontare dei personaggi resistenti che si distaccano dalla quotidianità e dal resto della società per affrontare una propria lotta. Quindi, ho deciso di raccontare la storia dell’ultimo abitante di un paese fantasma. Un personaggio che, mentre il resto della comunità ricomincia a vivere stipata in una new town, è rimasto lì fedele alla sua vecchia vita e al suo paese cercando di preservarlo e di farlo rinascere; intraprendendo anche una lotta contro chi ha preferito dimenticare.
Dove è stato girato il film?
È ambientato per metà in Campania e per metà in Puglia. Il paese realmente disabitato, in cui sono state ambientate le scene, è Apice in provincia di Benevento; mentre in Puglia abbiamo girato a Gravina, in alcune zone del centro storico che sembrano più abbandonate, più remote.
Osservando i tuoi lavori precedenti si ritrova un forte rapporto con il territorio pugliese. Qui invece?
I film precedenti, per via della narrazione e dell’ambientazione, erano legati al territorio pugliese. Qui invece la città è inventata, il nome è Provvidenza ed è un paese che chiaramente non esiste. Necessitava ricostruirlo ambientandolo in un posto realmente abbandonato, fantasma. Diciamo che per la prima volta nei miei film non si parla in maniera evidente di una Puglia, ma di un luogo del sud non meglio identificato che ha trovato la sua forma, appunto, in questo paese fantasma della Campania e nei luoghi della Puglia a me cari come quelli di Gravina o della Murgia che hanno restituito bellezza ai luoghi in cui volevo ambientare la storia. La location per me è fondamentale, infatti, in fase di preparazione spendo tantissimo tempo nel fare un location scouting accuratissimo, a vantaggio della narrazione. Come per il film Le spose infelici, ambientato in quella lingua di terra del siderurgico, l’Ilva e la provincia tarantina. Allo stesso modo, nei cortometraggi ho cercato di raccontare i personaggi all’interno di un contesto che rispecchiasse fortemente il loro essere, lo stato d’animo e la propria essenza. Anche in questo film la forza di quest’uomo, Elia che resiste e coglie tra le macerie del suo mondo di oggi quel che resta della vita passata, doveva avere un’ambientazione forte e curata.
Il tuo lavoro, per i temi affrontati, ha un’impronta sociale e un legame con la memoria?
Credo che ogni storia, alla fine abbia un livello sociale. Mi piace molto raccontare delle favole che abbiano delle radici nella realtà. Più è stridente il contrasto tra i toni, più mi affascina il racconto. Sicuramente Elia con il suo mondo e tutto ciò che lo circonda sono frutto d’immaginazione, ma la sua storia, il suo contesto e l’evento che ha portato all’abbandono, sono drammaticamente riscontrabili nell’attualità dei nostri giorni; in quello che soprattutto noi italiani stiamo vivendo negli ultimi anni.
Questo personaggio, Elia, può essere definito un eroe contemporaneo?
Elia è un personaggio coerente con se stesso e che non vuole dimenticare. Si, è un personaggio attuale. Diciamo che dimenticare e far morire dei luoghi sta diventando, purtroppo, una prassi consolidata e mi affascinano questi personaggi che sono, invece, radicati in un luogo e difendono strenuamente la propria casa, il proprio paese. Elia da questo punto di vista è un eroe, una persona che affronta la sua lotta e non vuole uniformarsi, ma più tosto spera che la sua comunità ritorni a popolare quelle strade.
Com’è avvenuto l’incontro tra te e Sergio Rubini che interpreta il ruolo di Elia?
È accaduta una cosa che quando capita è un privilegio! Dal primo momento in cui ho pensato questa storia, ho immaginato questo personaggio con le sembianze di Sergio Rubini, con la sua fisicità e soprattutto con la sua capacità di alternare i toni da quello più lieve a quello drammatico. Poter scrive un soggetto e poi una sceneggiatura – che ho scritto con Antonella Gaeta e Massimo de Angelis – immaginando un personaggio precisamente su un attore e ritrovarsi poi a lavorare con quest’attore sul set, è un bel percorso che nasce già nel momento in cui immagini il personaggio sulla pagina scritta; e non capita sempre. Ho sempre evitato d’immaginare degli attori quando ho scritto qualsiasi progetto, ma qui è stata dirompente la forza di un attore che mi è sempre piaciuto e che ha delle caratteristiche fisiche particolari nel panorama del cinema italiano. Per me sarebbe stato molto complesso trovare un attore che riuscisse a mimetizzarsi naturalmente tra le pietre di quel palcoscenico di macerie, in cui si è trovato a lavorare Sergio che, invece, si è amalgamato con il progetto in maniera perfetta.
Da un punto di vista tecnico, della fotografia, come hai lavorato?
La forza di questo film si trova, innanzitutto, nel lavoro fatto con una troupe molto giovane e affiatata in cui si è ricreata un’atmosfera famigliare. La produzione ha capito l’importanza di dare seguito a una squadra di professionisti che mi ha seguito già negli altri lavori. Da un punto di vista della fotografia, curata da Giorgio Gianoccaro, abbiamo giocato tra la regia, la scenografia e la restituzione del contrasto di cui ti parlavo: mantenendo dei toni chiaro scurali con un certo rigore, ma allo stesso tempo delle incursioni in uno stile che si distacca dal realismo. Un equilibrio tra oggettività, restituito dalla location abbandonata e fatta di macerie in cui abbiamo girato; e un tono un po’ più favolistico, distaccato da questa rudezza. In tutti i reparti, dalla fotografia all’interpretazione, abbiamo mantenuto questo confine; un confine su cui mi è piaciuto giocare anche nei documentari. Diciamo che nei lavori precedenti si trovano le premesse del lavoro fatto in questo film, ma con un’intenzione ancora più forte: come per esempio la storia del custode di un cimitero che non muore mai, Pinuccio Lovero. Si tratta di un docufiction in cui sono presenti degli elementi di costruzione, uno spazio finzionale e un cimitero, quindi il posto più crudo e realistico in cui si poteva girare, però con un tono che rifuggiva da questo realismo. E questo contrasto ho cercato di riportarlo, attraverso la commistione di diversi elementi, anche in questo film.