Jimmy Villotti è una personalità alquanto originale nel panorama dell’intrattenimento musicale italiano. Di preferenza chitarrista, suona anche il pianoforte, avendo un amore, questo per niente anomalo, per Thelonious Monk e le sue musiche. Per molti anni ha fatto di professione il dilettante, cioè il turnista per registrazioni di personaggi di moda, orientati al jazz ma anche no, come Dalla e Conte. Continuando a non disdegnare la routine delle jam session amatoriali, da qualche tempo cerca occasioni per esibirsi in concerto. E appunto con un suo quintetto e un programma interamente monkiano s’è presentato di recente nella cantina Bentivoglio, spazio di larga promozione del jazz all’italiana (lo spaghetti jazz?), ma ben conosciuto anche all’estero.
L’aspetto più singolare del concertismo di Villotti sta in una precoce autoimmunizzazione dalla hybris elettrica imposta allo strumento dal rock, col dilagare di dissonanze per distorsione ed esasperazione di accenti e sottolineature.
Non che a ciò si riducessero le chitarre dei seguaci di Hendrix, ma quel che in maniera più impressionante colpiva la generalità del loro pubblico era nella violenza degli effetti, anche se per loro natura piuttosto semplici. D’altro canto gli interpreti della chitarra basso, es. Bruce dei Cream continuavano a coltivare la linea piuttosto che le macchie. Il quadro nasceva con una struttura lineare, mentre la scena appariva «sporca» un Klee, si fa per dire, a sostegno di un Vedova. Quanto al pubblico, direi si dovesse parlare di un diffuso apprezzamento delle violenza degli effetti molto superficiali in deformazioni caricaturali.

JIMMY non c’è stato e ha preferito la lezione chitarristica degli anni Cinquanta, melodica, magari tortuosa, ma sempre nitida, quella che dà vita, a un livello minore, al night post bellico, quella che s’incontra con la canzone. Tra i musicisti di jazz, tra i maggiori, colui che più potrebbe suggerire un approccio e un ancoraggio di quella fattura sembrerebbe essere proprio Monk, le cui dissonanze, a partire dalla semplice sovrapposizione di semitoni (mi e fa per esempio) sono affatto frequenti e scritte nelle partiture. Loro malgrado, anche Monk è soprattutto melodico (Round Midnight, Ask Me Now, Bolivar Blues) e ama gli andamenti lenti, pur se all’interno vi si snodano ghiribizzi (Straight No Chaser, Epistrophy). La sua è comunque un’alternativa al bebop, l’unica dell’inizio del sesto decennio fino alla comparsa del MJQ, del quartetto di Mulligan con Chet, dei New sound.

NON PER questo s’è scritto di dilettantismo riferendosi a Villotti, ma perché egli non sembra guidato da un genio che lo costringe, ma capace di adattarsi a tutto. Racconta Stefano Scodanibbio che, incontrato Mario Bortolotto a passeggio per Macerata, questi gli esternò qualcosa su cui stava giusto meditando, in sostanza sul genio, parola che per il critico pronuncerebbe l’accesso a un altro ordine di valori. Era un po’ come per Carmelo Bene, per il quale il dilettante può e sa fare di tutto, mentre il genio non può che servire il carattere impulsivo della sua creatività.
Tornando a Monk, Davis, nel cui quintetto egli suonò, non poteva chiedergli di accompagnarlo come lui avrebbe desiderato e, di contro la sua tromba non poteva essere messa a disposizione del solismo del pianista. Dunque furono affatto chiari e produssero anche lo scandalo di non suonare contemporaneamente.
Villotti sa che il suo Monk non vive nell’aura del Maestro, ma non se ne preoccupa: fa quel che può conoscendo i propri limiti che sono anche non essere né americano, né nero, né perfetto.