«Inesauribile gusto per il dilettantismo». Lo ha scritto, parlando di sé, Pier Vincenzo Mengaldo, e non è una boutade, ma una diagnosi. Certo, all’apparenza, paradossale per un filologo che, in cinquant’anni di lavoro sulla lingua italiana ha, letteralmente, orientato gli studi sul Novecento; ha curato edizioni imprescindibili, dal De vulgari eloquentia di Dante all’antologia dei Poeti italiani del Novecento; ha pubblicato una buona ventina di libri che hanno insegnato a tanti più giovani un modo di leggere i testi letterari. Eppure il piacere di occuparsi anche d’altro, di evadere dal cerchio stretto delle competenze professionali, in lui, c’è tutto, ed è uno dei tratti che lo definiscono. Anzi: è forse il punto dove la personalità, spiccatissima, del critico-linguista e il suo lavoro si incontrano più profondamente.
Cosa abita oltreconfine? Due amori, prima di tutto, entrambi estremi e felici, per la musica e per le arti figurative. Poi le seduzioni di letterature diverse da quella italiana, soprattutto la francese. Infine, la curiosità di raccontarsi, come Mengaldo ha fatto in una manciata di scritti tra memoria e autobiografia culturale. Un modo di parlare di sé che passa sempre attraverso altro: i libri della vita, il rapporto con amici ammirati, i viaggi all’inseguimento di avventure degli occhi e della mente. Quello che Mengaldo chiama dilettantismo è una sostanza umana distillatissima, che alimenta il suo lavoro non come rovescio privato, ma come humus dell’atto critico. E anche come granaio, riserva di modelli e di rimandi che sono attivi nelle pagine, solo in superficie centripete, dello storico della lingua italiana. Nessun conflitto, insomma, tra biografia e critica. Il lavoro è fatto della stessa stoffa della vita.

Estraneo ai più vistosi sconfinamenti ma plasmato anche da quelli, il nuovo libro di Mengaldo, La tradizione del Novecento (Carocci, pp. 440, euro  43,00), completa una serie, o saga critica, di cinque volumi dallo stesso titolo. Il primo era uscito nel 1975, quando parlare di tradizione per un secolo nel suo pieno dispiegarsi suonava come una sfida; mentre è, oggi, una promessa mantenuta, perché l’autore ha confermato negli anni la sua ipotesi di partenza mostrando, della lingua letteraria novecentesca, coesione e linee di irradiazione.

I temi sono quelli percorsi da decenni: la poesia, in italiano e in dialetto, spesso sotto specie metrica; pochi, selezionati, narratori; i grandi critici. Persistono dunque i contrafforti su cui poggiava fin dall’inizio l’edificio interpretativo (Montale è, da sempre, protagonista), mentre si sono via via solidificati interessi già presenti, ma meno dominanti. Infoltita col tempo la serie dei narratori, ha acquistato progressivo risalto il ruolo dei poeti in veste di traduttori – anche traduttori di sé stessi, come nel bel saggio su questo tema. Dove l’interessantissima conclusione è che la quasi totalità dei dialettali, quale che sia la loro parlata di partenza, tendono, volgendosi in lingua, a trascurare l’italiano regionale a vantaggio di una variante letteraria fin troppo nobilitata, oppure tecnicizzata. Segno di un rapporto incerto con la lingua nazionale che sfocia in ipercorrettismo: il dato riconduce, per via non ovvia, a un nervo scoperto dell’italiano di oggi, che si puntella di inutile pompa proprio quando esita o traballa.

La Tradizione del Novecento è una raccolta di saggi, misura che l’autore predilige. Quelle dieci, venti, raramente trenta densissime pagine non sono mai mera descrizione. Piuttosto, con parole di Franco Fortini, non «fotografia, ma radiografia». Mengaldo fa analisi formale, e ne impiega l’arsenale tecnico: il suo modo di guardare alla compagine linguistica dei testi è minuzioso e insieme brillante. Ma la scomposizione non è mai stazione d’arrivo, piuttosto tappa che punta alla ricomposizione, e alla più profonda acquisizione di senso che del saggio è l’obiettivo. La descrizione puntuale, scriveva Mengaldo nella prima Tradizione, è incapace di «esaurire i nostri obblighi di comprensione dei fenomeni letterari»: un credo mai, fortunatamente, sconfessato. Leggere la letteratura significa non fermarsi alla pazienza analitica, ma fare di quella pazienza un propellente. In altre parole: capire come è fatto un testo serve a capire cosa quel testo vuole dire, perché lo dice, come vuole agire su chi legge.

È però solo l’adempimento di un terzo obbligo che rende le analisi di Mengaldo così riconoscibilmente sue: critica non si dà senza giudizio di valore. Valutare è una pre-condizione. Forse sbaglio, ma non credo che Mengaldo abbia mai studiato un autore che davvero non gli piace: esclusioni e inclusioni, nei suoi libri, sono sempre prese di posizione. Una per tutte? Il privilegio accordato ai poeti rispetto ai narratori, che discende, ovviamente, da uno scandaglio qualitativo del nostro Novecento. E valutare è un risultato, che arriva alla fine del percorso analitico di cui si diceva.

Quanto il giudizio sia centrale, lo mostra la lingua stessa del critico. Gli epiteti, prima di tutto («i grandi Benn e Brecht», «la grande Pisana di Nievo», «sulla grande Mimesis di Auerbach»: senza darsi pena di variare l’aggettivo, che ha valore assoluto); poi le classifiche, ribadite come in presenza di sottaciute opposizioni («quello che io ritengo il maggior dialettale recente, e uno dei maggiori poeti contemporanei d’Italia in assoluto»); ancora, i superlativi, che di solito i critici non usano («è arcibene che…»); infine le parentesi del tipo «(virgolettato energicamente)», che non decentrano, ma accentuano opinioni e convinzioni: la prosa di Mengaldo gronda di forme linguistiche della non-neutralità. Il che prova anche, se ce ne fosse bisogno, il vigore di una delle lezioni che abbiamo imparato da lui: il metodo dello studioso, non meno della personalità del narratore o del poeta, si riverbera nella tecnica della scrittura.

Un gruppo compatto di saggi nel nuovo libro è quello sul mestiere di critico, filone che Mengaldo ha dissodato, con diritto di primogenitura, sempre lavorando su ritratti di singole personalità, e da cui era nato, nel 1998, il condensato, bellissimo Profili di critici del Novecento. Questa linea – la più autobiografica – fa perno, da sempre, su Contini. Con lui il dialogo si rinserra, rivelando un affratellamento che non smette di crescere. Proprio il saggio sulla Critica militante di Gianfranco Contini fornisce una chiave per annodare la persistenza di temi, di metodo, di postura interpretativa che sono tipici delle Tradizioni con l’avanzamento che ogni libro realizza: il concetto di approssimazione, che Mengaldo trasloca dal laboratorio degli scrittori all’azione, mai esaustiva, del critico.

nche Mengaldo agisce dunque per approssimazioni perché, tornando sui suoi bersagli, appuntisce o ri-orienta i ferri; e guarda ai risultati già acquisiti come a una postazione di partenza: di lì spicca il salto, non sempre per confermarli, qualche volta per limarli, comunque per allargare, in cerchi concentrici, il dominio dell’indagine.
Nei saggi si entra pieni di attese; ed è difficile uscirne, perché irretiscono in un sistema saturo e legatissimo. Mengaldo interroga e sfida, risponde e rilancia. Aggancia per forza di argomentazione e, non di meno, per la forza di una scrittura antiminimalista, nutrita di letture. La pagina è sintatticamente piana, ed esente da tecnicismi non indispensabili; vola, piuttosto, e si impenna al piano del lessico: i saggi sono pieni di parole inattese, sempre capaci di catturare aspetti altrimenti sfuggenti. Scelte ed estri che parlano non di investimento sul bello scrivere, ma di tensione al servizio del contenuto.

Le visioni panoramiche strette in sentenze dallo scatto aforistico sono un altro tratto distintivo: «l’epigonismo consapevole (di Orelli, Erba, Zanzotto) comporta una tal quale mancanza di ciò che Leopardi possedeva in grado sommo, la naturalezza». Dove la vastità dello scavo preparatorio si allea con l’inclinazione per la brevità. E con una certa impazienza, che molto gli somiglia, e che lascia traccia anche quando la sirena della sintesi incontra l’habitus asseverativo. L’efficacia, è chiaro, passa attraverso l’economia. Il che spiega, tra l’altro, la tendenza ad attivare parti del discorso altrimenti poco rilevate, che il critico sottrae all’inerzia e, funzionalmente, carica di senso: «Non s’insisterà mai abbastanza su quest’anche». Un dispositivo condiviso da Mengaldo con lo scrittore che più spiace non sia mai entrato nella sua orbita, quel Manzoni che, nella Colonna infame, argomentava: «ciò non ostante . Quanto non dice quell’avverbio, o congiunzione che sia!».