Sempre più vedo il confine messo a dividere uomo e animale come intimamente connesso a una domanda cruciale, ineludibile per chi abbia avuto in sorte di vivere dopo la Shoah: come si è arrivati a programmare e attuare l’eliminazione industriale di milioni di esseri umani, destituendoli della propria umanità?

Se la modernità ci ha reso ciechi al dolore, alla soppressione, al consumo e allo smaltimento di esseri viventi prodotti e processati industrialmente come cose, se non siamo capaci di riconoscere e lasciarci interpellare dal dolore del vivente, come possiamo rispettare gli esseri umani? Non si tratta solo di un pensiero animalista, ma di un ragionamento pienamente politico che – in bilico tra filosofia e scienza, nella definizione di ciò che è “uomo” e ciò che non lo è, di ciò che attiene all’umano e di ciò che se ne discosta – ci porta a un nodo essenziale che si può riassumere nell’invettiva di Schopenhauer contro l’esclusione degli animali dall’etica kantiana: «Sia dannata ogni morale che non vede l’essenziale legame fra tutti gli occhi che guardano il sole».

Dalle pagine di Tolstoj contro l’infinito massacro compiuto nei macelli, indietro fino al pensiero greco di Pitagora ed Empedocle, vediamo che la comunanza del vivente ha avuto piena dignità nella riflessione teorica e politica. Si tratta di una battaglia culturale che va al cuore di ciò che siamo. Una battaglia che vede sempre più donne e uomini ribellarsi all’idea che la persona – ovvero il soggetto di diritto – vada tutelata solo nell’appartenenza all’umano. Persona è chi è senziente, chi è capace di affetti, chi, con il suo sguardo, ci interpella. A dirlo non sono più personaggi divenuti icone del pacifismo, come Gandhi, o del pensiero scientifico, come Einstein, ma politici dal passato resistenziale che non hanno esitato a imbracciare le armi contro le dittature, come l’attuale presidente dell’Uruguay Pepe Mujica, ex tupamaro, che ha appena introdotto un decreto legge volto a punire anche con il carcere immediato chi attenta alle cinque libertà basilari dell’animale: la libertà dalla fame e dalla sete, la libertà dal dolore, dalla sofferenza e dalla malattia, la libertà dalla paura e dall’angoscia, la libertà di esprimere una condotta normale, la libertà dalla costrizione.

Mettere il rispetto per l’animale e per tutto il vivente al centro dell’agenda politica ha conseguenze rivoluzionarie, in termini economici, etici, educativi, ecologici. Comporta uno spostamento nelle pratiche quotidiane, nell’alimentazione, nella sperimentazione scientifica, nel rigetto della crudeltà, nell’abbracciare ciò che vive fuori dalle categorizzazioni e dalle gerarchie che la nostra cultura ci ha imposto nominandole come natura, e che sono invece espressione di dominio.

La soglia messa a separare l’uomo dall’animale è friabile, e l’uomo può essere facilmente respinto verso l’animale (o, per meglio dire, verso il concetto, l’astrazione, lo stigma contenuto nella parola “animale”); verso il “sottouomo”, l’Untermensch.

Nella propaganda dei regimi, la costruzione del nemico – e dunque la possibilità della sua eliminazione fisica – viene attuata con la destituzione di umanità implicita nel nominare l’altro come animale. Nell’iconografia nazista gli ebrei sono topi, parassiti da disinfestare; in Ruanda, negli incitamenti allo sterminio fatti dagli hutu, i tutsi erano scarafaggi. Gli esempi sono infiniti, e sarebbe interessante interrogare l’indifferenza all’animale che alberga nelle metafore, nelle similitudini, nelle immagini che usiamo comunemente.
Si dice «andare come pecore al macello» per intendere persone imbelli e in fondo colpevoli della propria sorte; se però guardassimo alle pecore come a esseri dotati di sguardo, di volto, una simile immagine diventerebbe impossibile. La lezione di Lévinas sul volto come fondamento dell’etica potrebbe allora investire il vivente, o almeno varie soglie di prossimità del vivente. Forse è proprio il nostro negare un volto all’animale, il nostro attribuirlo solo all’umano – un umano contrattabile, dal quale escludere di volta in volta i malati di mente, gli “asociali”, gli omosessuali e tutte le categorie via via considerate inutili o dannose – a fondare l’indifferenza che permette gli stermini.

Robert Antelme, nel radicale azzeramento di ogni concetto del “bene e del bello” fatto nella sua prigionia ad Auschwitz, parlava dell’«eterno movimento del disprezzo» come voragine della nostra cultura: credo che cominci dal disprezzo dell’animale. Ed è da qui che occorre rifondare la nostra politica come inclusione.

L’autrice ha ideato e organizzato il convegno «L’altra Europa per il vivente» che si terrà martedì al circolo Arci Biko di Milano, promosso nell’ambito della campagna elettorale della lista L’altra Europa con Tsipras e dedicato al rapporto tra gli umani e gli animali.