Tove Ditlevsen, strade di casa, i dintorni di una fragilità
Jarner Palle, ritratto di Tove Ditlevsen per l’Agenzia Ritzau
Alias Domenica

Tove Ditlevsen, strade di casa, i dintorni di una fragilità

Narrativa danese L’«Infanzia» in un sobborgo degradato di Copenaghen è al centro del primo dei tre piccoli volumi autobiografici di Tore Ditlevsen: ora da Fazi
Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 24 aprile 2022

Il destino di Tove Ditlevsen prese avvio a Copenaghen nel 1917, in una famiglia operaia e in un luogo –la zona intorno a Istedgade – che ancora oggi, nonostante la riqualificazione che ne ha fatto un quartiere di locali alla moda, è ricordato come uno dei centri del proletariato urbano, e più di recente una via a luci rosse. È un quartiere di casermoni che ospitavano chi arrivava nella capitale a inizio Novecento, quando la Danimarca rurale aveva già avviato l’esperienza delle cooperative di piccoli proprietari, mentre i ceti più umili si riversavano in città, indirizzati alla difficile vita della manodopera industriale.

Di questo mondo operaio Tove Ditlevsen descrive la quotidianità, i destini di singoli personaggi, come prima di lei aveva fatto Martin Andersen Nexo con il suo Pelle il Conquistatore, un’epopea nota in Italia – forse – solo per il film di Bille August con Max von Sydow, premiato a Cannes nel 1988. Entrambi gli scrittori ci restituiscono una Danimarca ormai lontana nel tempo, che aiuta tuttavia a comprendere alcune atmosfere di quella Storia dei sogni danesi che è il capolavoro di Peter Hoeg, l’autore del Senso di Smilla per la neve.

Ditlevsen attraversò gran parte del Novecento descrivendo, nella sua scrittura lontana da intenti politici, la realtà ed esponendo senza riserve le radici della sua fragilità, ciò che contribuì a guadagnarle quella popolarità che fa ancora di lei un’icona della cultura danese. Chiunque – almeno in Danimarca – ha in mente le sue foto di giovane scrittrice, l’immancabile sigaretta in mano, in ascesa prima del conflitto mondiale, e poi, quelle della donna matura segnata dall’instabilità mentale, dall’esperienza di quattro difficili matrimoni con tre figli, e dalla dipendenza dai farmaci.

A rendere comprensibile la popolarità di Tove Ditlevsen, ancora a quasi cinquant’anni dalla sua morte, è tuttavia non solo la sua produzione letteraria, che conta decine di titoli di prosa e poesia, saggi e contributi giornalistici, cui si aggiunge un’autobiografia in tre piccoli volumi, il primo dei quali, Infanzia è ora tradotto da Alessandro Storti per Fazi (pp.123, € 15,00); ma anche la sua interessante attività giornalistica e saggistica, raccolta per esempio nel volume Flugten fra opvasken (La fuga dai piatti da lavare), del 1959. Nella sua prospettiva, le figure femminili non soddisfano forse i criteri di quella che sarebbe divenuta la letteratura femminista, ma inquadrano già con estrema lucidità i problemi al centro del futuro dibattito.

Nella nostra lingua erano uscite finora poche liriche in riviste o antologie, e sebbene non sia questo il genere che ha portato Tove Ditlevsen al successo, la poesia ha rappresentato per la scrittrice un filone sempre al centro dei suoi interessi. Iniziò a scriverne da bambina e a pubblicarne appena ventenne, quasi sempre lontana dalle mode contemporanee, legata piuttosto a schemi tradizionali: la metafora come artificio retorico e l’uso della rima e del metro, ciò che ha portato una star della canzone danese, Anne Linnet, a mettere in musica i suoi testi poetici in due album, il secondo dei quali, Barndommens gade (La strada dell’infanzia), del 1986, è un classico che contiene tracce tuttora ascoltate.

A rendere Tove Ditlevsen un personaggio popolare fu anche la collaborazione col più longevo e diffuso settimanale danese, il Familie Journal nato già nel 1877, dove curò la posta dei lettori dal 1956 per vent’anni, fin quando, nel 1976, decise di mettere fine alla sua vita. Quattromila testi raccolti nel 2018 in un poderoso volume di quasi mille pagine rivelano risposte dal tono così poco scontato da renderle ancora leggibili.

Molta parte dell’universo descritto nelle opere di Tove Ditlevsen deriva dalle esperienze consumate nel quartiere intorno a Istedgade cui rimase sempre legata, la strada dell’infanzia che è il titolo di uno dei suoi romanzi più noti, pubblicato nel 1943, e che torna in una delle sue poesie più famose, che a sua volta dà il nome al disco del 1986. Da quei primi anni muove anche il resto dell’autobiografia, ancora inedito in italiano, il cui secondo volume che tratta la Giovinezza e il terzo e ultimo, uscito nel 1971, raccontano i matrimoni prima e poi la dipendenza, indotta consapevolmente da uno dei mariti, un medico: furono esperienze così sinistre da indurre l’editore a scegliere per l’ultimo volume l’ambiguo titolo di Gift, che in danese significa ‘sposata’ ma anche ‘veleno’.

L’edizione italiana dei tre volumi autobiografici è destinata a colmare, nella comprensione di un paese ormai noto in Italia in molti suoi aspetti attuali, la lacuna di un passato troppo recente per essere ignorato: i tre libri sono stati infatti recentemente riscoperti con successo in Germania, Olanda, Spagna, e persino negli Stati Uniti, con il titolo Trilogia di Copenaghen. Proprio perciò spiace, nel leggere il volume appena pubblicato, trovare una versione che mentre non riesce ad andare sotto la superficie della lingua soffre di alcune ingenuità, tra cui l’ingiustificato uso di un lessico desueto (i poliziotti diventano gendarmi, per esempio), qualche equivoco e, soprattutto, l’incapacità di percepire e trasmettere quella sottile e a tratti malinconica ironia che è connotante di questa e altre opere di Tove Ditlevsen.

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