Restare a testa bassa a volte è meglio che uscire a testa alta. Vale forse per la Brexit, di sicuro per Theresa May. Non che il resto del partito avesse scelta, peraltro. La prospettiva di una terza elezione del leader in due anni, attimi prima dell’apertura del negoziato con una Bruxelles ringalluzzita dall’impasse conservatrice, è più che sufficiente a indurre i ribelli Tory a posticipare la punizione per il boomerang delle elezioni anticipate.

LA PREMIER ha fatto pubblica ammenda non senza una certa riluttanza e ha profferto di restare fin quando il partito vorrà. La mattina di ieri l’ha trascorsa tracciando la fisionomia dell’accordo con la leader degli orangisti del Dup, Arlene Foster. Il dispositivo che dovrebbe garantire la governabilità – termine esotico in questi lidi costituzionali – è un governo di minoranza basato sul principio cosiddetto di supply and confidence e non una coalizione tout court: niente accordo formale che leghi i due partiti per tutta la legislatura o comporti incarichi ministeriali per gli alleati, bensì la garanzia del loro appoggio in questioni vitali come la politica economica o la difesa laddove fosse necessaria la fiducia. In cambio Londra allargherebbe quasi certamente i cordoni della borsa con Belfast, secondo il fabbisogno, alleviando l’austerity.

 

14europa1_f02 may foster

L’ACCORDO dovrebbe essere finalizzato oggi o domani. Potrebbe avere ricadute spiacevoli sul processo di pace in Irlanda del Nord, eppure resta l’unica via praticabile, viste le inconciliabili differenze fra i due contraenti su questioni etiche e di diritti civili: il Dup è un amalgama di bigotti creazionisti clima-scettici. Sono alleati naturali dei Tories, da sempre loro stella fissa a Westminstere, non darebbero mai via libera a Jeremy Corbyn, con le sue simpatie repubblicane irlandesi. E più che mai dopo l’arrivo a Westminster dei sette deputati del Sinn Féin di Gerry Adams: come riporta il Sun, c’è timore a destra che qualora Jeremy Corbyn offra loro un referendum per unificare l’Irlanda (cosa che Adams auspicherebbe comunque al più tardi fra cinque anni) questi prendano possesso dei propri seggi contravvenendo alla loro decisione di stare lontani dalla corona (si sono sempre rifiutati di prestarle giuramento).

Al momento Stormont, il parlamento devoluto di Belfast guidato dagli stessi Dup e Sinn Féin secondo il power sharing agreement, è inattivo da gennaio, quando alle accuse di corruzione che hanno travolto la premier Foster s’è aggiunta la scomparsa del vicepremier Martin McGuinness. A marzo sono seguite elezioni inconcludenti e ora bisogna riaprire i negoziati tra le parti con la mediazione di Westminster. Solo che tale mediatore è James Brokenshire, segretario dell’Irlanda del Nord che deve la sopravvivenza politica della sua premier proprio a una delle parti in causa. Cosa che, ovviamente, Jerry Adams non vede di buon occhio. Ma sulla tenuta dell’accordo ha espresso seri dubbi anche John Major, a sua volta al governo di minoranza con il Dup negli anni Novanta: la mancanza d’imparzialità del mediatore è lesiva del fragile equilibrio su cui poggia la pace. Mentre il fronte secessionista si acqueta in Scozia, si risveglia in Irlanda del Nord.

I COMUNI, ieri, hanno riaperto i battenti con l’elezione dello speaker (per la terza volta John Bercow, nella soddisfazione generale) e del father of the House, il decano Tory dei deputati Ken Clarke, remainer sfegatato che occupa lo scranno da 47 anni. Accolta dal tramestio canzonatorio dell’opposizione, May ha fatto un discorso inneggiante alla diversità per genere ed etnia raggiunta dal Parlamento e di una necessaria unità nazionale alla vigilia delle negoziazioni per la British Exit dall’Ue, che dovrebbero cominciare la settimana prossima. Poi è andata a Parigi, dove l’attendevano colloqui con Emmanuel Macron.

Subito dopo il discorso della premier ha preso la parola Corbyn, accolto da una standing ovation. In mezzo a qualche gustosa frecciata, il leader laburista ha fatto capire che l’opposizione ci sarà. Finora ha resistito – giustamente – alla tentazione di legare la campagna del partito a una marcia indietro sull’Ue, cosa che ha permesso di riappropriarsi del voto Labour perduto nelle zone ad alta incidenza del Leave. Bisogna vedere se accoglierà l’appello di molte figure centriste ad abbracciare un’alleanza transpartitica che scongiuri un’hard-Brexit, ora che May è così debole.