Lo scorso 26 giugno, nella giornata internazionale dedicata alle vittime di tortura, la Camera ha iniziato la discussione sul testo del reato che, finalmente, si vorrebbe approvare, a 31 anni dall’entrata in vigore della Convenzione Onu.

Nei giorni scorsi, sulle pagine del manifesto il presidente di Amnesty Italia, pur criticando la definizione della nuova fattispecie, si è detto favorevole alla sua introduzione, per «porre fine alla rimozione della tortura, scrivendo finalmente quella parola indicibile nel codice penale». Non è una buona notizia. Non è questa la sede per un’attenta disamina delle aporie legislative, quanto, ci pare, l’occasione per segnalare due diverse ragioni che danno conto della nostra contrarietà alla tesi sostenuta da Antonio Marchesi.

La prima. Nel corso del tempo la parola tortura è stata scritta in diverse sentenze (per i fatti di Asti, di Genova, e ancor prima per quelli di Padova, conseguenti alla liberazione del generale Dozier), pur nell’assenza del reato nel nostro Ordinamento.

Se questa norma venisse approvata nessun giudice potrebbe nominare l’indicibile; una volta introdotto un reato o se ne afferma la sussistenza o si assolve, non vi sono alternative.

Lo hanno scritto nei giorni scorsi, con buone ragioni, i magistrati genovesi che si sono occupati dei processi del G8. Pretendere il contrario storce il ruolo del giurista, e si risolve in un’eterogenesi dei fini.

Ancora. Si è sostenuto che «lascia decisamente perplessi la formulazione da cui si desume la necessità, perché vi sia tortura, di più comportamenti».

Perplessi? Eppure, riferendosi alla reiterazione delle condotte, in un volume collettivo sulla tortura lo stesso Marchesi scrisse nel 2015 che «le modifiche in questione rendono il testo inaccettabile, e pongono fine al nostro precedente dilemma». Il testo che verrà approvato afferma la liceità della tortura; una volta si può. Il divieto di tortura è un comando inderogabile, anche in tempo di guerra; uno dei quattro «core rights» della Convenzione dei diritti dell’Uomo.

Dire la tortura è un compito arduo, come sostiene la filosofa Donatella Di Cesare.

Il secondo motivo di contrarietà, dunque, non è solo di principio, ma è molto più pratico (chi scrive è un avvocato), poiché discende dalla formulazione involuta del testo, che lo rende inapplicabile, o al più riferibile ad ipotesi diverse da quelle per le quali 157 Paesi hanno ratificato la Convenzione.

La tortura ha a che fare col potere, ed è anche per questo che oggi lo Stato si prepara a licenziare un testo che offende la dignità dell’Uomo. Così, nessuno è Stato.