Il 26 giugno scorso, il Centre Suisse pour la Défense des Droits des Migrants (CSDM), un’organizzazione no profit fondata nel 2014 e con sede a Ginevra, Svizzera, ha inviato al Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura una richiesta di indagine formale ai sensi dell’articolo 20 della Convenzione contro la tortura* e altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti concernenti la condotta dell’Italia nel Mediterraneo centrale, che attraverso l’addestramento e l’equipaggiamento della Guardia costiera libica sta portando alla tortura di massa, lo stupro e alla riduzione in schiavitù migliaia di rifugiati e migranti ricondotti in Libia. 50.000 persone per l’esattezza, dall’inizio del Memorandum of Understanding con la Libia del 2017. Ousman Noor è un avvocato del Csdm.

Avvocato Noor, quante possibilità ci sono che il Comitato dell’Onu contro la tortura avvi un’indagine sull’Italia?

I dieci esperti del Comitato contro la tortura hanno una limitata possibilità di scegliere a quale indagine dare la priorità, ma la nostra richiesta essendo inedita e ponendo nuove questioni crediamo possa avere buone possibilità di ricevere una risposta positiva.

In che modo, dopo il dossier mandato da un team legale alla Corte penale internazionale (Cpi) per “crimini contro l’umanità”, la richiesta sarebbe inedita?

Ormai sono anni, che esistono le prove documentate della sistematica tortura in Libia di migliaia di profughi ricondotti in Libia dalla Guardia costiera di Tripoli (rapporti Nazioni Unite e gruppi di diritti umani). L’Unhcr, l’Oim e il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa hanno anche chiesto di interrompere immediatamente la collaborazione con i libici. Affidando i respingimenti alla Guardia costiera libica, l’Italia viola gli impegni assunti con la Convenzione contro la tortura. La cooperazione dell’Italia con la Libia facilita, infatti, gli orribili abusi di migliaia di persone in cerca di sicurezza e rifugio, e la loro tortura da parte di attori libici. Sia i funzionari del governo italiano che di altri paesi europei hanno anche riconosciuto pubblicamente quanto sta accadendo. Nella nostra richiesta d’inchiesta dimostriamo che riconducendo i migranti in Libia, la Guardia costiera libica agisce per conto dell’Italia.

L’Italia non potrebbe rispondere che non è responsabile di quello che accade sul territorio libico?

Su un piano strettamente operativo, la Guardia costiera libica opera solo grazie al supporto logistico e materiale fornito dall’Italia che comprende finanziamenti, navi, formazione e strutture di comando e controllo, come anche un MRCC italiano a Tripoli. Persino la sorveglianza navale e aerea in tempo reale nel Mediterraneo centrale è fornita direttamente dall’Italia e attraverso i programmi dell’Ue a cui partecipa. Senza le risorse fornite dall’Italia la Gcl non sarebbe quindi in grado o disposta a intercettare le imbarcazioni dei migranti, né a localizzarle nella propria zona SAR (“Search and Rescue”). Ma anche sul piano legale non sarebbe possibile argomentare il contrario: perché nel Draft Articles on Responsibility of States for Internationally Wrongful Acts, è specificato che le responsabilità di uno Stato vanno oltre le frontiere meramente geografiche; anche la Convenzione contro la Tortura specifica che uno stato può essere considerato penalmente responsabile fuori dalle sue frontiere. Nel caso Italia-Libia, la responsabilità è ancora più evidente, visto che l’Italia ha creato, tramite il Memorandum of Understanding del 2017, di sana pianta la Guardia costiera libica, il cui obiettivo dichiarato è di “arginare la migrazione illegale”. Il passaggio dai “push-back” (respingimenti) che coinvolgono la stessa marina italiana e che sono stati dichiarati illegali dalla Cedu nella sentenza Hirsi Jamaa (2012) – ai “pull-back”, in cui l’Italia esternalizza la stessa attività ai libici, costituisce proprio il tentativo di evitare la responsabilità secondo la legge sui diritti umani. Tuttavia, come dimostriamo nella nostra richiesta, il coinvolgimento dell’Italia con la Gcl è così completo e organico che l’Italia stessa è diventata responsabile della condotta della Gcl in base ai principi del diritto internazionale. A causa del suo ruolo decisivo su tutti gli aspetti del programma di “pull-back” in Libia, l’Italia esercita di fatto il controllo sui migranti nel Mediterraneo centrale e le sue azioni rientrano pertanto nell’ambito giurisdizionale della Convenzione contro la tortura.

Anche nel caso dell’agonia su imbarcazioni alla deriva per giorni, non soccorse, intercettate, e respinte indietro, si potrebbe parlare di tortura?

Si, ci sono anche lì prove schiaccianti che su imbarcazioni affollate, respinte e alle quali è stato vietato di sbarcare nei porti di Malta o d’Italia, inutili sofferenze fisiche – mancanza di cibo, di acqua, bruciature, ecc… – e psicologiche, sono inferte su persone vulnerabili e già esposte per giunta alla tortura in Libia. Pratiche che sono riconducibili alla tortura, ed è un aspetto che, dopo questo caso, vogliamo portare avanti con il Csdm.

Alla luce di migliaia di persone migranti abusate sui confini europei, non sarebbe importante aggiornare il concetto di tortura?

Nel caso Italia-Libia si può parlare di tortura sistematica, perché si tratta di un accordo governativo bilaterale, durato in modo continuo dal 2017, persino rinnovato nel 2020, che ha portato all’intercettazione e al ritorno forzato, in meno di tre anni, di circa 50.000 persone nei campi libici; e alla loro conseguente tortura. Esortiamo quindi il Comitato ad avviare un’indagine che stabilirà i fatti e le responsabilità legali dell’Italia e intanto all’interruzione immediata di ogni collaborazione con la Gcl e altre autorità migratorie libiche implicate in abusi di rifugiati e migranti. Tra l’altro, non è solo una mera responsabilità dell’Italia (su cui ci concentriamo in questo esposto), che cristallizza i sentimenti europei anti-migranti: in realtà l’Europa intera, per anni, ha disumanizzato migranti e rifugiati, rendendoli mere statistiche da controllare, non-persone, ciò rendendo accettabile nell’opinione pubblica, la loro detenzione di massa e il loro abuso deliberato e sistematico ai confini, per meri vantaggi elettorali. Anche con l’uso dei Trust Fund europei l’Ue finanzia le milizie libiche, e non solo.

*Il Comitato contro la tortura è incaricato di vigilare sul rispetto da parte dello Stato della Convenzione contro la tortura, anche aprendo un’indagine ai sensi dell’articolo 20 circa situazioni che rivelano una pratica sistematica di tortura da parte di uno stato.

 

 

 

 

 

 

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