Vestiti informali con jeans scuri e maglietta, Rodolfo picchietta sulla tastiera del laptop e Marcello traffica dipingendo su una tela lamentandosi del freddo appartamento. Presto raggiunti da Colline, studente di filosofia e Mimì, donna delle pulizie ucraina, con le sirene della polizia in sottofondo. Siamo nella soffitta sui tetti di Parigi del capolavoro pucciniano, La Bohème, in una versione decisamente aggiornata e anticonvenzionale (nonché cantata interamente in inglese), messa in scena dal gruppo londinese Opera UpClose, traducibile con opera da vicino.

Un progetto nato qualche anno fa nel piccolo Cock Tavern Theatre di Kilburn, una sala al secondo piano di un pub, dove un gruppo di cantanti lirici iniziò a provare La Boheme in un locale frequentato da un esercito di bevitori incalliti, con gli slogan dell’Ira ancora sulle pareti del bagno. Da lì è partita la regista (e adattatrice) Robin Norton-Hale che voleva a tutti i costi avvicinare all’opera lirica un pubblico più giovane e scanzonato ed ha guadagnato così una serie notevole di premi per il suo lavoro (compreso l’Olivier Award).

Per la prima volta in Italia, all’interno del Ravenna Festival, le disperate vicende dei bohemien d’oggi si muovono nell’Osteria del Mariani, un ampio ristorante nato dalla trasformazione di una grande sala cinematografica in decadenza (ma una piccola saletta di proiezione è rimasta), con grandi lampadari, una platea a due piani e cucina a vista, una stanzona dove viene rappresentato «A cena con l’Opera» questo insolito esperimento di tortelli e cavatine, salumi e ariette, con un solo strumento musicale, il pianoforte, suonato con destrezza, da Elspeth Wilkes, a condurre per mano interpreti e spettatori.

Ben divise le due fasi, cena con primo e secondo piatto, poi i primi due atti con gli artisti che galleggiano tra povertà e stenti, una situazione molto attuale per i precari di quest’epoca, intervallo col dolce e gli altri due. In particolare il secondo atto, ambientato nel bar dove arrivano Musetta e il suo cavalier servente Alcindoro scatenando gelosie e pettegolezzi, viene cantato tra i tavoli della sala con Musetta (Emily-Jane Thomas), carica di buste di Topshop, Gap e Brumley, più capricciosa che mai, che lo manda a comprare altre scarpe per scatenarsi nel ballo e potersi baciare con Marcello (il baritonale Thomas Colwell).

I conoscitori della storia, sebbene poco angloparlanti, non fanno fatica ad orientarsi tra Your fingers are half-frozen, let me warm them in my own (Che gelida manina) e le tipiche scenate degli innamorati delusi, cogliendo facilmente il linguaggio del melodramma, trasportato ai giorni nostri, con una chiave di lettura, fresca e originale, richiamando artistoidi e olgettine, ragazzi spiantati e anziani doviziosi, a inseguire i loro sogni.

Fino alla conclusione con gli amici che vendono orecchini e portasigarette per aiutare la malatissima Mimì (la burrosa Susan Jiwey) che pulisce le case dei ricchi per mandare a casa i soldi, e che confeziona fiori di stoffa che le ricordano la primavera al proprio paese per vincere la nostalgia di casa, fino all’inevitabile drammatica conclusione, dai toni più malinconici.