Nel 1737, in un ambiente sotterraneo del convento di Sant’Agostino, in una delle vie principali di Catania, viene scoperto un torso di dimensioni monumentali. Non ha la testa né il braccio sinistro, che si può immaginare impegnato in un qualche atto, mentre l’altro braccio evidentemente riposa, anche se gli manca una mano. Il marmo, come da copione, viene trasportato nella Loggia del Senato, appena ricostruito su progetto di un Vaccarini retour de Rome che va ridisegnando l’intera città dopo l’ultima, devastante irruzione delle colate laviche. Ma è una collocazione che dura poco. C’è infatti un giovane principe di Biscari, Ignazio Paternò Castello, che si sta entusiasmando allo studio delle antichità e il prestigio del casato è tale che si può concedere la custodia dell’opera – lo stesso accade l’anno dopo per un Ercole ritrovato. Così la scultura, senza badare troppo alla divinità che doveva rappresentare, diventa il Torso Biscari.
Con tanto di discorso inaugurale, il Museo Biscari apre al pubblico nel 1758 e il Torso è al centro di una galleria, in compagnia di busti di «Imperadori, Imperadrici, e Persone illustri» – circa ottanta, dice il principe – ma è l’unico che si possa definire «lavoro greco». Siamo ancora agli inizi dell’avventura museale, Ignazio non ha nemmeno quarant’anni. E «non essendo per anche terminata la nuova fabbrica, la classe de’ marmi sta quasi ammonticchiata in un benchè grande Corridore». Le pareti delle prime sale sono rivestite da epigrafi o da pitture murali che provengono dalle catacombe, acquisite nel mercato antiquario romano; poi bassorilievi, urne e bronzetti introducono ad altri ambienti che hanno le scansie tutte occupate dai vasi, greci o ritrovati in Sicilia, fino a culminare in stanze dedicate alle produzioni naturali.
Ignazio arriva a farsi concedere dal re Ferdinando il permesso di scavare in tutta la Sicilia orientale, e insieme a un altro principe palermitano, Gabriele Lancillotto Castelli, di Torremuzza, si occupa della Regia Custodia delle antichità. L’idea di tutela è abbastanza chiara: tutto ciò che si ritrova di antico va a costituire parte del suo museo, dove si pratica una forma di restituzione delle proprie scoperte, per via di allestimenti visitabili dagli interessati. Così altri marmi monumentali si vanno via via aggiungendo, nella grande galleria dove il Torso è centrale. Poi l’impegno di Ignazio si vede nelle sua attività di erudito: difende Catania a spada tratta, se non si riconosce l’importanza delle antichità che lui ha contribuito a portare alla luce; rende note iscrizioni o statuette in terracotta, si iscrive e fonda accademie, tiene corrispondenza con Charles Townley o con il barone d’Hancarville.
La fama del Museo e del suo fondatore giovano quindi al Torso, ma è vero anche il contrario. Chi fa per primo risuonare la voce della scultura in Europa è Joseph-Hermann von Riedesel, un barone che nel 1771 indirizza a Winckelmann una serie di lettere-resoconto di un Viaggio in Sicilia e Magna Grecia. È un libro che colma parecchie e brucianti lacune sulla conoscenza della Sicilia antica e servirà da guida per i viaggiatori almeno fino ai tempi di Goethe. Qui si dichiara apertamente che il Museo Biscari è uno dei più completi che ci siano in Italia. Il Torso secondo Riedesel è un Bacco: questa statua grande una volta e mezzo il naturale risponde in pieno alle sue aspettative. Sono ormai maturi i tempi di un’estetica che cerca uno stile greco fatto di finitezze, mollezze ed eleganze, dove il nudo attrae più di ogni cosa e si pretende che i sottosquadri del panneggio siano studiati con ogni possibile cura.
Più o meno a questo punto della storia giunge in Sicilia Jean Houel, pittore di Rouen, che per quattro anni perlustra, descrive, si immerge in rovine e ricostruzioni fino a restituire un’immagine insuperata delle antichità e del paesaggio dell’isola. Il frontespizio del terzo tomo del suo Voyage è una sintesi efficace di quest’approccio amatoriale, sedotto da quantità e qualità delle opere viste. Il Torso è in penombra, a fianco ci sono busti, architravi, capitelli corinzi, e un’altra divinità acefala, poggiata fantasticamente su una basamento, pure del Museo Biscari, ornato da bucrani. Ora che è in disparte, il Torso ci appare in una prospettiva anomala, ma così si può accentuare l’eccentricità di un’immaginaria torsione, come se improvvisamente occorresse ricorrere a Michelangelo più che a Prassitele, per capire il fascino della scultura. Il petto ha dimensioni ancora più sovradimensionate, mentre il panneggio è occultato, come se andasse nascosto rispetto alla nudità del dio senza testa. E di conseguenza, anche nella descrizione, per Houel è difficile trattenere l’entusiasmo. Il Torso è «le plus beau morceau de sculpture que j’ai jamais vu». Il Torso del Belvedere «n’est pas de cette beauté : il n’a pas la noblesse de celui-ci dans le choix de formes, & dans l’élégance des proportions». Si fa strada un’altra possibile identificazione, con Giove, ma il ragionamento è vòlto esclusivamente a giustificare gli esiti formali straordinari di uno scultore che è riuscito a riunire ideale e naturale nel dar sembianza alla divinità che sta più in alto nella gerarchia dell’Olimpo.
Houel è più accorto del principe nel giudicare il Torso un’opera greca: ha girato abbastanza per capire che un manufatto del genere proviene verosimilmente dai resti di una grande costruzione monumentale di epoca romana. Le convinzioni finali di Ignazio sul Torso vengono invece affidate al suo Viaggio per tutte le antichità della Sicilia del 1781, vero e proprio vademecum approntato per il forestiere che ha bisogno di materiali aggiornati per districarsi fra le tante antichità e novità emerse nei decenni trascorsi a fare ricerche. Molti dei suoi scrupoli si sono concentrati negli anni sull’area del Foro della Catania romana – d’altronde le fondamenta del convento di Sant’Agostino sono «fabbricate sopra grosse antiche muraglie poco discoste dal Foro, che mi fanno credere, essere quivi stata la Curia, la Basilica, e le Carceri» e «quivi fu trovato il celebre Torso Colossale, che gelosamente conservo nel mio museo, che forse non la cede a qualunque opera Greca, che vanta l’Europa».
Ma il punto culminante di questa fortuna è probabilmente la ventesima lettera, tutta dedicata al Museo Biscari, di un autore assai scrupoloso: Johann Heinrich Bartels. Pagine e pagine di questo giovane di Amburgo sono vòlte ad appurare tutto ciò che potesse incuriosire il lettore sul Torso: ora i paragoni non si limitano più al Torso del Belvedere, si tira in ballo l’Apollo del Belvedere, il Gladiatore Borghese, il Laocoonte… senza la visione e lo studio del Torso nel Museo Biscari pare che la formazione culturale di un esponente dell’élite europea non possa dirsi solida e completa.
Dominique Vivant Denon, che impiega tre giorni per visitare il museo, è forse più acuto nel cogliere l’eccezionalità del progetto di Biscari, che ricorda come una «persona totalmente priva di vanagloria». Il savant fondatore del Louvre sa bene che la storia della Sicilia è fatta di stratificazioni e saluta ogni restituzione di questa complessità con giusta soddisfazione. Il merito maggiore del principe è di aver promosso gli scavi e di aver concepito il museo come diretta appendice della sua ricerca archeologica e storica. Non serve quindi puntare troppa luce su quel Torso, se si vuole davvero rendere conto, in modo enciclopedico, di quanto Greci, Punici, Romani, Bizantini e Normanni si siano avvicendati nel mondo antico.
Quando Goethe sbarca in Sicilia (1787), è già troppo tardi: Ignazio è morto l’anno precedente e ci si deve accontentare di incontrare il figlio, ma è come se il fervore sullo studio delle antichità si stia già affievolendo. Il mito del Torso ormai toglie ogni possibilità di inatteso: il poeta si trova davanti all’opera ma ricorda di averla già vista. Il suo amico pittore Tischbein teneva una riproduzione in gesso nel suo studio. Così, esaurito il secolo dei Lumi, è come se i fari sul Torso Biscari si spegnessero: troppo era stato detto e scritto, tanto che lentamente, l’interesse su questa scultura cala. Vuoi anche che nel 1934 la collezione Biscari viene integrata nei musei civici di Catania: a dorso di mulo – lo documenta una foto – il Torso viaggia dal palazzo al Castello Ursino. Chi cura questo passaggio è Guido Libertini, un archeologo palermitano che dirige il museo catanese dove accorpa anche l’importante raccolta che avevano formato i Benedettini. La posizione dello studioso è esplicita nel catalogo che pubblica sul Museo Biscari (1930): il torso «godette di una celebrità esagerata».
Ma anche ora vive silente nei vuoti saloni del castello federiciano, isolato contro una parete e bagnato da una giusta luce diurna e naturale.