Salvatore Torrisi ieri ha presieduto la seduta della prima commissione del senato. Come negli ultimi quattro mesi, ma stavolta avendone pieno titolo. Non si è dimesso, malgrado il leader del suo partito ieri glielo abbia chiesto ufficialmente. Mettendolo di fronte a un’alternativa secca. Rinunciare all’incarico al quale mercoledì lo aveva eletto la commissione, con il voto segreto della minoranza e la partecipazione di quattro franchi tiratori di maggioranza, probabilmente anche del Pd, o finire fuori dal partito. Torrisi ha definito la richiesta «inconcepibile, roba che neanche il partito comunista sovietico», e Alfano ha dovuto dichiarare che «il senatore non rappresenta più Alternativa popolare». Una rinuncia che è un gesto di fedeltà a Matteo Renzi.

Il ministro degli esteri, già in crollo di popolarità tra i suoi, un attimo dopo aver portato a segno un’espulsione assai poco giustificabile da un punto di vista istituzionale – per quanto espulsione da un partito gassoso come Ap – ha provato a ribaltare sul Pd la responsabilità del suo gesto. «Se qualcuno è in cerca di pretesti lo dica chiaro», ha detto. «Abbiamo capito il giochino e non ci prestiamo», ha aggiunto, ma ci si era appena prestato. Più comprensibile l’aplomb di Torrisi, che si è detto disponibile al passo indietro «solo se il Pd ha una soluzione alternativa condivisa».

Il Pd non ce l’ha, come non l’ha avuta negli ultimi quattro mesi, da quando Anna Finocchiaro ha lasciato la presidenza per andare al governo. Però Renzi sa bene come la guida della commissione affari costituzionali del senato sia postazione cruciale per fare la nuova legge elettorale, o per non farla. Gli basta ricordare che ne sarebbe stato dell’Italicum senza Finocchiaro.

Per l’uscente, e rientrante, segretario Pd il sistema elettorale in vigore – quello che mette insieme due leggi ritagliate dalla Corte costituzionale, l’Italicum decapitato della camera e il Porcellum monco del senato – è in realtà un sistema buono perché consente di ricostruire il gruppo Pd a sua immagine a somiglianza grazie alle pluricandidature e alle liste bloccate a Montecitorio. Così lo stallo è responsabilità innanzitutto del primo partito, consapevole che quando si avvicinerà lo scioglimento delle camere gli interventi di ritocco potranno essere minimi e risparmieranno gli elementi che più interessano al capo partito. Se non potrà avere una vittoria netta e il controllo del parlamento – dovrebbe raggiungere l’impossibile 40% – Renzi potrà almeno consolidare il controllo del partito. Si tratterà al massimo di «armonizzare» le soglie tra camera e senato, magari alzando un po’ quella della camera (oggi al 3%).

E se Renzi adesso dice che tocca alla maggioranza che ha eletto Torrisi avanzare proposte, basta rivolgere lo sguardo alla camera per capire che non è colpa delle opposizioni se tre mesi (dalla bocciatura dell’Italicum) sono passati invano. La legge elettorale infatti è ancora in commissione a Montecitorio, dove in attesa della fine del congresso Pd l’unica cosa che si potrà fare – il 12 aprile – sarà una conta per vedere quale proposta ha più voti. Dovrebbe vincere il Mattarellum, la proposta ufficiale del Pd che convince ormai solo la Lega. Servirà a poco, visto che la legge andrà approvata nell’aula della camera e poi del senato. Il bicameralismo è ancora in piedi.