Come era giusto aspettarsi, nonostante tutte le demagogie che continuano a insinuarsi nella nostra mente e nella nostra vita, il cosiddetto smart working e l’organizzazione on line degli scambi culturali e scientifici hanno mostrato tutti i loro limiti. Adatti, fino a certo punto, per il lavoro da casa quando la propria professione non richiede un confronto di idee costante con gli altri e per tutte le transazioni di tipo “amministrativo”, vanno in crisi quando escono da questo campo. Stress psicofisico, latente aggressività, diffidenza, funzionamento psichico accelerato sono tra i sintomi di un malessere che è diventato sempre più manifesto pian piano che la permanenza nelle relazioni online si è protratta.

L’horror vacui derivato dall’assenza di contatti reali e dall’umore depressivo ha creato una tendenza maniacale a colmare ogni spazio libero con iniziative online, la ricerca di una stimolazione continua che producendo una parvenza eccitante di ricchezza in un luogo deserto di coinvolgimento e di intensità, è sfociata in una innegabile dipendenza di cui non sarà facile liberarsi. Sul corpo femminile della mondanità, la modalità più sensibile e sentita di abitare il mondo, il virtuale artificiale ha disegnato, proprio dove l’interiorità erotica si apre beante all’alterità, il segno fallico dell’erezione/eccitazione. La ripetizione del medesimo dietro l’ingannevole spettacolo della variazione. Si sente spesso dire che «a come era prima non si tornerà» e non si capisce bene se in questo modo si esprime un auspicio o una paura. Non è per nulla chiaro perché passata un’emergenza non si dovrebbe tornare alla “normalità”, ma poiché c’è resistenza diffusa ad accettare il buon senso, bisogna pensare che l’emergenza rischia di diventare necessità, che l’essere “eretti”, eccitati può diventare norma interiorizzata di vita. E non sarà certo colpa della pandemia o del digitale.

Il digitale rappresenta un’opportunità, ma ci sarà pure qualche motivo che ci riguarda se di opportunità (e di buone intenzioni) sono lastricate le strade dell’inferno e non del paradiso. La digitalizzazione può migliorare molto l’appagamento dei nostri bisogni e delle nostre condizioni materiali di vita, ma digitalizzare le relazioni erotiche (nella loro forma carnale o in quella sublimata che include ogni esperienza creativa) è un hubris, un’offesa intollerabile alla nostra umanità a cui ci stiamo pericolosamente abituando. Il nostro spostamento progressivo sulla logica del bisogno (l’adattamento alla pura esistenza biologica e al famigerato “senso di sicurezza” – l’eliminazione del rischio e della vita vera) sta alterando il nostro senso della realtà, della vita. La ferita dell’eros e dell’intimità ci allontana dal gioco della prossimità con la lontananza: l’intesa tra il legame e la libertà che crea profondità. Al suo posto si insinua l’inganno dello schermo: esso imitando la vicinanza nasconde la distanza e la rende irreperibile insieme al lutto che essa richiede. Nel cinema, vis a vis con lo schermo su cui si dispiega una “storia”, l’imitazione di un’azione che la rivela nelle sue declinazioni potenziali, lo spettatore entra, in modo sempre personale, originale e non sovrapponibile a nessun altro modo, nello spazio virtuale non artificiale (checché se ne pensi un film non è un artefatto), ma immaginario (l’azione immagine che mentre evolve si apre a sviluppi non lineari). Come se fosse un sogno. Siamo o non siamo fatti della materia dei sogni?

Nella comunicazione digitale se cerchiamo di attraversare lo schermo, di “toccare” l’altro, di sentire il battito nel suo discorso, sbattiamo su una superficie invisibile fatta di granito. La relazione autentica è l’incontro tra due o più esseri psicocorporei (la natura specifica dell’umano) capaci di condividere uno spazio onirico comune animato dal contatto dei loro respiri. Torniamo alla vita reale fatta di incontri autentici, non contraffatti.