In L’esilio impossibile. Stefan Zweig alla fine del mondo di Georg Prochnik (il Saggiatore, 2018) si legge: «Il dolore di essere separati dai propri libri è un tema ricorrente tra gli autori émigrés. (…) Nessuno, comunque, tornò sul problema dell’ansia da separazione dai libri con la stessa frequenza di Zweig». Il prolifico narratore e saggista austriaco, i cui testi vennero messi al bando dai nazisti per le sue origini ebraiche e il suo impegno in ambito pacifista alimentando le fiamme che si svilupperanno sinistramente nei roghi dei libri del 1933, definì «un onore più che un’ignominia la partecipazione a quel destino di completa distruzione letteraria che ho subito insieme a eminenti contemporanei come Thomas Mann, Heinrich Mann, Franz Werfel, Freud, Einstein e molti altri, le opere dei quali considero infinitamente più grandi delle mie». In effetti, questo trasporto da bibliofilo compare in numerosi testi di Zweig, a cominciare dalla celebre novella Mendel dei libri, il cui protagonista, un rivendugliolo ebreo dalla memoria prodigiosa, incentrata esclusivamente su titoli e dati editoriali presenti nei cataloghi delle librerie antiquarie, incarna a suo modo la decadenza dell’intellettuale in ambito non solo mitteleuropeo (Zweig, acceso sostenitore dell’europeismo, fu costretto a emigrare a Londra e negli Stati Uniti ben prima dell’Anschluss, suicidandosi a Petrópolis, in Brasile, nel 1942 insieme alla seconda moglie Lotte).
D’altronde è sufficiente pensare ai riferimenti di cui è disseminata l’autobiografia Il mondo di ieri, concernenti la sua magnifica collezione di edizioni originali e autografi che annoverava manoscritti di Leonardo e Goethe, spartiti di Mozart, Haendel e Beethoven, disegni di William Blake, procacciati nelle più importanti aste internazionali. A Zweig interessava il momento primigenio in cui un’opera affiora dal nihil, la stesura originaria più che il successivo rimaneggiamento della stessa, come risulta da questo passaggio tratto dal succitato Mondo di ieri, in cui si condensa «il misterioso istante in cui un verso, una melodia, esce dall’invisibile, dalla visione e dall’intuizione di un genio, per fissarsi graficamente e realizzarsi in forma concreta». Proporrà addirittura di sfrondare l’opera di certi classici al fine di renderla più leggibile, senza considerare l’arbitrarietà e l’irrealizzabilità insite in tale progetto.
Si deve partire da questi presupposti per affrontare Il libro come accesso al mondo e altri saggi che Archinto manda in libreria, con l’esauriente cura di Simonetta Carusi e una premessa di Enzo Restagno («Le mongolfiere», pp. 120, € 16,00). Vengono qui raccolti alcuni contributi pubblicati su quotidiani e riviste tra il 1905 e il 1931, dall’insieme dei quali trapela una riflessione sul mondo dei libri e della cultura, di cui è indissolubilmente permeata la stessa speculazione novecentesca. Il tema della bibliofilia è una costante nell’opera variegata di Zweig, peraltro invisa a Kraus e Musil, che svaria da innumerevoli cammei biografici (Erasmo, Maria Antonietta, Fouché, Balzac) ad alcune piccole gemme come Amok, Sovvertimento dei sensi, Novella degli scacchi, Paura, Bruciante segreto.
Si passano così in rassegna alcune opere capitali di autori frequentati e amati da Zweig: dalle Nuove poesie e il Libro d’ore di Rilke a Destra e sinistra e Giobbe di Joseph Roth, da Il disagio della civiltà di Freud (senza dimenticare il Diario di un’adolescente, originariamente apparso a Vienna nel 1926, con una lettera del fondatore della psicoanalisi) al mondo delle fiabe e delle Mille e una notte. Ne è scaturito un intarsio variegato ma quanto mai godibile, il cui tema è anticipato dal saggio che dà titolo alla raccolta, in cui si riporta un aneddoto riguardante un giovane marinaio italiano che, a bordo di una nave, chiede a Zweig di leggergli una lettera dell’innamorata che non è in grado di decifrare in quanto analfabeta. L’autore, per associazione di idee, si chiede allora come sarebbe la vita senza libri, arrivando alla conclusione che «vi potevo riuscire tanto poco quanto un sordo che provi a cogliere la magia di un’esecuzione musicale attraverso le descrizioni di qualcun altro». Il saggio è uscito nel quotidiano di Budapest in lingua tedesca Pester Lloyd il 15 agosto 1931, un paio d’anni prima della pubblicazione su «Cruz y Raya» di Decadenza dell’analfabetismo in cui José Bergamín sembra approdare a conclusioni diametralmente opposte rispetto a quelle di Zweig, riconoscendo un’aura di autenticità alle manifestazioni di chi riesce a esprimersi soltanto oralmente.
In una recensione Rilke è considerato come «il più sensibile dei poeti, delicato come una foglia dalle tante nervature che sugge rugiada dall’aria, che beve i raggi del sole e ogni respiro del vento con le sue fibre ardenti». Riguardo al Giobbe dell’amico e sodale Joseph Roth (si veda l’intenso epistolario contenuto in L’amicizia è la vera patria, edito da Castelvecchi nel 2015), l’autore osserva: «Questo romanzo non si legge, si vive. E finalmente, una volta tanto, chi lo legge non si vergogna di commuoversi».
È sintomatico che alcuni contributi si richiamino scopertamente all’opera narrativa, laddove un antefatto pressoché casuale costituisce l’abbrivio per approfondire un determinato argomento: in Ritorno alla fiaba si descrive l’ospitalità richiesta dal protagonista a una donna per ripararsi da un temporale durante un’escursione in campagna e la relativa accoglienza nella camera dei bambini dove si trova una copia bistrattata dei Viaggi di Gulliver. Zweig divaga intorno ai libri per l’infanzia, passando dal più canonico topos dei fratelli Grimm e del Robinson Crusoe agli apologhi derivanti da episodi veterotestamentari e dall’Heinrich von Ofterdingen di Novalis, arrivando a stigmatizzare come «il nostro tempo (…) dovrà reinventare anche la fiaba, da cui ci separa ormai il frastuono delle metropoli, il fragore dei treni che attraversano i boschi e sovrastano le voci degli elfi».