Per la prima volta nella storia del festival di Cannes un film italiano aprirà la Semaine de la critique, giunta alla sua 56esima edizione: Sicilian Ghost Story di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza. Il film prende spunto da un brutale fatto di cronaca degli anni Novanta ma presenta una dimensione fantastica che affonda le sue radici nel racconto Un cavaliere bianco di Marco Mancassola, cui è liberamente ispirato. Nel loro studio, i poster alle spalle dei due registi – Una storia vera di David Lynch e Testimone d’accusa di Billy Wilder – creano un mix insolito che sembra già suggerire l’atmosfera del loro secondo lungometraggio, nelle sale italiane dal 18 maggio.
Il film che portate a Cannes racconta una storia che vi ossessiona da tempo. Un fantasma riuscirà a scampare alla sua sparizione grazie all’amore, forse proprio per sottrarsi alla violenza che ne ha segnato la vita.
Piazza: Hemingway diceva che ogni generazione si confronta con qualcosa. Se la sua si confrontò con la Prima Guerra mondiale, la nostra generazione, in quanto siciliani, deve inevitabilmente confrontarsi con i fantasmi che vengono dagli anni Novanta.
Grassadonia: Questa favola si genera nel peggiore incubo che la realtà siciliana di cui abbiamo fatto esperienza abbia generato, negli anni Ottanta e Novanta. È a cavallo di questo incubo che decidiamo di andare via dalla Sicilia. L’episodio che trattiamo è sempre stato per noi una fortissima angoscia, e abbiamo deciso di confrontarci con questo fantasma che perseguita la nostra coscienza. Come si fa a raccontare una storia che non è raccontabile? Siamo partiti dalla realtà, dai dati di fatto, e l’abbiamo fatta collidere con una realtà altra, all’estremo opposto di quella che ha generato quest’incubo. Ci siamo interrogati sul modo in cui, pur senza tradire il fatto storico, la collisione tra due realtà potesse generare una catarsi: per noi come autori, per noi come siciliani, e per i due protagonisti. Una catarsi che nasce da uno scontro fra ciò che è umano e ciò che umano non è più. Quel che preserva la nostra umanità e l’umanità dei nostri protagonisti è il loro sentimento d’amore. Ma è un amore violento, come la violenza e l’incubo che li inghiotte. L’amore vince e salva la vita alla nostra protagonista, ma salva e preserva anche l’umanità del ragazzino protagonista. Se per noi era fondamentale partire dai dati emersi dai verbali processuali che abbiamo studiato, il bisogno di connessione di questi due ragazzini fa nascere qualcos’altro che pertiene alla realtà spirituale del loro amore.
Piazza: La protagonista del film è dotata di grande immaginazione, disegna, crea: per noi il percorso di salvezza è anche un percorso di rielaborazione nella dimensione della creazione poetica o di fantasia. Per questo abbiamo scelto una frase di Sciascia come nostra guida: la Sicilia è tutta una fantastica dimensione e non ci si può star dentro senza fantasia. Questa «fantastica dimensione» fa riferimento anche all’irrazionale con cui si è confrontata la grande narrativa siciliana, e che nella nostra accezione si declina nell’irrazionale di una crudeltà intesa anche come stupidità.
Al di là della storia, il vostro film parte da una suggestione visiva: avete battuto tutta la Sicilia alla ricerca di un bosco e di un lago. L’ambientazione era fondamentale per raccontare questa storia.
Piazza: Bisognava lasciare i luoghi tipici della narrazione e del folklore siciliano, della fiction di mafia: per questo siamo andati nelle regioni cariche di verde, di acqua, in luoghi che non hanno nulla a che fare con il mare. Questo film non si sarebbe potuto fare senza un bosco, senza un lago, e senza trovare i due giovani attori. Avendo deciso che era la dimensione fantastica a permetterci di raccontare questa storia abbiamo cercato una Sicilia che si prestasse a questa dimensione. Facendoci guidare anche da alcuni miti, dai racconti delle foreste, da un certo folklore siciliano legato all’acqua e alle figure che si generano nell’acqua abbiamo trovato quei luoghi sui Nebrodi, in una Sicilia del tutto vergine allo sguardo cinematografico, mai raccontata e anche piuttosto inesplorata. È una Sicilia di boschi centenari, tra Cesarò a San Fratello, attorno al monte Soro. C’è un grande albero che un po’ come nei racconti di Miyazaki per noi ha un senso e una presenza, lo chiamano «l’acerone», è un acero di più di 400 anni. In questo scenario, che si prestava fortemente a un racconto che fosse contemporaneo ma anche senza tempo, siamo riusciti a raccontare la nostra storia.
Il vostro primo cortometraggio, «Rita», era interpretato da una bambina di 10 anni, e ancora oggi tornate a lavorare con degli adolescenti. Qual è il vostro interesse verso questa età?
Grassadonia: La preadolescenza è certamente il momento in cui in potenza le possibilità sono ancora infinite. Avevamo bisogno di un preadolescente perché il film nasce da una storia molto brutta accaduta a un ragazzino di 12-13 anni. Una storia buia, che volevamo si aprisse alla luce grazie ai ragazzi che dovevano essere i protagonisti e che con noi avrebbero fatto questo film. Ci stimolava molto il fatto che non fossero attori: volevamo accompagnare i ragazzi per mano e con tutte le cautele necessarie all’interno di una storia terribile, una storia che poco per volta sentissero propria e dentro la quale potessero riversare se stessi. Un lavoro durato mesi, nel corso dei quali si sono potuti impadronire dei personaggi e farli loro, con i loro tic, le loro forze, le loro debolezze, con i loro bisogni, i loro incubi, i loro sogni. Anche i personaggi, di conseguenza, si sono trasformati.
Piazza: Per fare un film del genere devi aver voglia di dedicare molto tempo ai ragazzi. Lavorare con dei bambini è difficilissimo solo se pensi di poterti comportare come si fa con degli adulti professionisti, con i loro giorni di prove, di riprese ecc: è evidente che non può essere così. Maurilio Mangano ha fatto un casting di 9 mesi che io e Fabio abbiamo seguito da vicino, realizzando un vero e proprio censimento delle scuole siciliane: abbiamo incontrato migliaia di ragazzi, fatto centinaia di provini. Già questo è stato un viaggio che ha influenzato la riscrittura del film che abbiamo fatto con i ragazzi.
In che modo provate a lavorare sull’immagine della Sicilia al cinema? Anche «Rita» e «Salvo» erano film che raccontavano storie di mafia, ma in maniera piuttosto lontana da certi stereotipi visivi.
Piazza: Dentro Rita ci sono non soltanto le premesse di Salvo, ma anche di Sicilian Ghost Story: l’incontro tra questi due ragazzini si muove tra il reale e il sogno. La nostra è una Sicilia sognata, che ci permette di ri-raccontare la Sicilia. La Sicilia delle fiction televisive è per noi un universo chiuso e non stimolante da un punto di vista creativo. Non ci dice nulla di quello che siamo, delle ferite e dei fantasmi, di quello che vogliamo raccontare e che ci sta a cuore, della Sicilia che abbiamo vissuto, della Sicilia di adesso o di quella che verrà. La nostra chiave d’accesso è quella della ri-creazione fantastica. Anche Salvo in fondo era una ghost story: il segreto di Salvo e Rita è in fondo ignoto a tutti quelli che li circondano. Sicilian Ghost Story chiude sicuramente il nostro rapporto con la Sicilia per quanto riguarda le storie di mafia. Ci sembra di dire qualcosa di definitivo rispetto a come abbiamo vissuto la Sicilia e a come pensiamo che si possano raccontare queste storie. Se ci torneremo sarà in un modo completamente diverso. Se la Sicilia sarà ancora un’ambientazione per le nostre storie ci porremo il problema del «cosa fare adesso», del come andare oltre quello che ci sembra di dire molto bene in questo film.
Grassadonia: Possiamo finalmente mettere da parte certi tipi di sentimenti e una parte della nostra esperienza. La Sicilia rimane il cuore del nostro lavoro, e ci interessa ancora andare al midollo di alcune esperienze siciliane, ma questo film riesce a portarci fuori da un certo dolore, da un certo buio. L’esperienza con questi ragazzini è stata la chiave di volta.